Abuso delle cose comuni e abuso sulle cose comuni, quali differenze?
Usare in modo eccessivo una cosa comune travalicando il limite insisto nel diritto riconosciuto dalla legge ovvero dal titolo di acquisto significa abusarne.
Imprimere alla cosa comune delle modifiche materiali o delle modifiche della destinazione d’uso, senza che ciò sia assentito dalle autorità amministrative preposte, ovvero sia conforme all’autorizzazione, ovvero ancora non sia possibile sic et simpliciter, vuol dire rendersi responsabili di un abuso edilizio; tale locuzione non è espressamente prevista dal testo unico dell’edilizia (il riferimento è semplicemente all’abuso quale conseguenza della violazione), che si occupa di tali illeciti, ma è comunemente considerata quale identificativa delle irregolarità testé descritte.
Tanto premesso, dunque, se ne può già desumere una sostanziale differenza: l’abuso di una cosa comune può essere diverso dall’abuso su una cosa comune. Tale possibile alterità dell’uno rispetto all’altro comportamento illecito è la norma, ma non mancano ipotesi di sovrapponibilità.
È utile allora comprendere le fattispecie nelle loro caratteristiche identificative, nelle somiglianze e differenze, oggettive e soggettive – id est le norme di riferimento – e quindi osservare quali sono gli strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento.
Abuso delle cose comuni: nozione, giurisprudenza e casi pratici
L’art. 1102, primo comma, c.c. detta le regole in materia di uso della cosa comune; la disposizione normativa è inserita nell’alveo di quelle finalizzate a disciplinare la comunione in generale, ma in virtù di quanto stabilito dall’art. 1139 c.c. è applicabile anche al condominio negli edifici.
Il primo elemento da tenere in considerazione afferisce all’ambito soggettivo di applicazione della norma: il riferimento è all’uso dei beni comuni da parte dei singoli condòmini. Ove le decisioni sulle modalità d’uso fossero assunte dall’assemblea non si tratterebbe di valutare la liceità del comportamento del singolo, ma prima d’ogni cosa l’invalidità della deliberazione condominiale quanto meno ai sensi degli artt. 1117, 1137 e 1138 c.c.
Ciò chiarito e tornando all’art. 1102, primo comma c.c. letto in ottica condominiale, esso specifica che ciascuno dei partecipanti al condominio ha diritto di usare i beni comuni nel modo che più gli è utile, purché nei limiti del proprio diritto e nel rispetto degli altrui diritti, è sempre non alterandone la destinazione.
La giurisprudenza, con la quale concorda unanimemente la dottrina, ha chiarito che il divieto di alterazione della destinazione va inteso anche quale divieto di alterazione del decoro architettonico dello stabile, nonché divieto di apportare modifiche in grado di incidere sulla stabilità e sicurezza dell’edificio (tra le tante Cass. 22/02/2022 n. 5809).
Il divieto di abuso delle cose comuni così individuato trova innumerevoli applicazioni giurisprudenziali: in tal senso, tra le varie, s’è detto che può rappresentare uso illecito di una cosa comune l’apposizione di una canna fumaria sulla facciata dell’edificio (Cass. 13/11/2020 n. 25790). Parimenti illecito può essere il collocamento di una caldaia sulla facciata.
La Cassazione ha altresì affermato che può essere considerata illecita la chiusura di un balcone in veranda, ai sensi dell’art. 1102, in disparte dai profili di regolarità urbanistica di cui si dirà più avanti.
S’ipotizzi ancora che uno o più condòmini abbiano realizzato degli scivoli di accesso alla propria abitazione per facilitare l’ingresso di cicli e motocicli. La realizzazione può essere lecita (anche se si tratta di accesso pedonale), nella misura in cui non crei pericolo o intralcio.
Non può considerarsi intralcio il fatto che un altro condòmino non possa parcheggiare, se esistono altri parcheggi a sufficienza per tutti e considerando che in questo come in tutti i casi di uso delle cose comuni ex art. 1102 c.c. va sempre operato un bilanciamento tra diritti.
Ove non vi sia compressione dell’uno a vantaggio dell’altro difficilmente potrà dirsi realizzata una violazione della norma in esame.
Parcheggiare a maggiore distanza da casa non lo è, specie se non esiste un posto auto assegnato a ridosso dell’abitazione.
Tratto caratterizzante di ognuna di queste ipotesi è la possibilità dell’illiceità della condotta. Nessun automatismo, dunque, ma circostanze che devono essere verificate in concreto, caso per caso.
Il parametro di valutazione è fissato dalla legge, nello specifico dall’art. 1102 c.c. Ciò vuol dire che starà al giudice del caso valutare se la fattispecie concreta posta alla sua attenzione è lesiva del pari diritto degli altri condomini rispetto all’iniziativa asseritamente illecita.
È di tutta evidenza che non sempre possa essere data una risposta tranchant: il principio di solidarietà condominiale che informa i rapporti tra condòmini non lo consente, serve un’attenta e scrupolosa indagine che consenta di bilanciare le contrapposte esigenze. Non sempre è così, potendo ricorrere ipotesi di comportamenti icto oculi illegittimi.
Si pensi al condomino che in spregio agli spazi materiali esistenti si ostini a parcheggiare in un punto che impedisce il passaggio delle altre macchine.
In ogni caso è bene sempre considerare il contenuto del titolo, ergo il primo atto di cessione da parte dell’originario unico proprietario (cioè l’atto costitutivo del condominio) ovvero del regolamento condominiale qualora di origine contrattuale; in questi atti, infatti, può essere contenuta una disciplina derogatoria dell’art. 1102 c.c. Ciò vuol dire che i documenti citati possono limitare particolari iniziative (es. vietare ogni modifica della facciata, non consentire una specifica modalità d’uso, ecc.) ovvero comprimere i diritti di più condòmini in favore di uno o di un gruppo di essi (è l’ipotesi all’uso esclusivo).
Abuso sulle cose comuni: nozione, giurisprudenza e casi pratici
Come si diceva in principio dall’abuso delle cose comuni, ovvero dall’uso abusivo in quanto contrario alla legge e/o al titolo, va distinta la diversa fattispecie degli abusi sulle cose comuni, ossia delle condotte illecite in quanto poste in essere in violazione delle norme urbanistico edilizie.
Al riguardo è meno marcata la differenza dal punto di vista soggettivo: non v’è differenza se a porre in essere la violazione edilizia sia il condominio, a seguito di una delibera di approvazione dei lavori ovvero su input dell’amministratore, oppure il singolo condòmino: in tale ultima circostanza al più la condotta del comproprietario potrebbe altresì aver rilievo ai sensi dell’art. 1102 c.c. Tale valutazione va operata sulla scorta degli indici sopra citati.
Gli interventi sulle parti comuni possono essere di ristrutturazione (si pensi al classico caso di manutenzione straordinaria), di nuova costruzione (si pensi alla realizzazione di box auto), ovvero misti, cioè di ristrutturazione e nuova costruzione.
In entrambi i casi è possibile che l’abuso sia commesso in quanto l’attività edilizia sia posta in essere senza l’autorizzazione (sotto forma di SCIA ovvero permesso di costruire) oppure in totale o parziale difformità dall’opera assentita. La disciplina di riferimento è contenuta nel d.p.r. n. 380/01 e può trovare specifiche integrazioni nella normativa di rango regionale e locale.
S’ipotizzi, per riprendere un caso sopra citato, la realizzazione di una veranda ad opera di un condòmino: la condotta comporta l’aumento di volumetria, necessita di essere preventivamente autorizzata e insiste sulla facciata, aderendo a quella tesi che considera l’ingombro del nuovo corpo di fabbrica afferente ad una parte comune.
Quanto all’abuso edilizio perpetrato a seguito di delibera assembleare, si faccia riferimento ad opere eseguite senza la preventiva richiesta di autorizzazione (sotto forma di SCIA o permesso di costruire) ovvero a quelle realizzare in difformità da quelle assentite.
In tali ipotesi, resta ferma l’eventuale responsabilità verso il condominio dell’amministratore, del direttore dei lavori e dell’impresa appaltatrice. In presenza di amministratore la responsabilità condotta penalmente rilevante ricadrà su di esso, salvi i casi di concorso nel reato dei tecnici e anche dei singoli condòmini.
Abuso sulle cose comuni e delle cose comuni, le ipotesi di contemporaneità
Date queste coordinate essenziali ad inquadrare le due fattispecie, è utile comprendere al meglio le conseguenze per le ipotesi di contemporaneità.
Al riguardo, oltre al caso della veranda citato in precedenza, può farsi riferimento all’installazione di un ascensore sulle parti comuni, ma ad opera del singolo. La giurisprudenza è concorde nell’affermare la legittimità ex art. 1102 c.c. di tale realizzazione, in special modo ove posta in essere per il superamento delle barriere architettoniche.
Chiaramente l’opera deve rispettare i dettami previsti in materia condominiale, nonché la sua realizzazione essere rispettosa delle disposizioni in materia urbanistico edilizia (Cass. 26/11/2019 n. 30838).
Considerati questi aspetti, è dunque possibile che l’installazione del citato impianto sia lesivo del pari diritto d’uso delle cose comuni (es. restringendo oltremodo le scale o i pianerottoli) ed in uno con esso che la realizzazione violi la disciplina urbanistico-edilizia vigente (es. per violazione delle regole in materia di beni storico artistici).
In tal caso ciascuna violazione viene valutata separatamente, alla stregua delle regole proprie della disciplina di riferimento.
Conseguenze nel caso di condotte abusive e rimedi a tutela dei singoli e del condominio
Se un condòmino parcheggia l’automobile in un luogo ed in un modo tale da impedire il passaggio degli altri, ovvero anche semplicemente da renderlo fortemente difficoltoso, a ciascun condòmino, all’assemblea ed all’amministratore è data azione per l’accertamento della violazione. Idem nel caso di realizzazione di una canna fumaria sulla facciata, di apposizione di ingombri sulle parti comuni, ecc.
Ai sensi dell’art. 1117-quater c.c. sembrerebbe doversi concludere che l’azione autonoma dell’amministratore debba essere considerata solo stragiudiziale, posto che la norma parrebbe riservare la decisione sulla promozione del giudizio all’assemblea, ferma restando quella dei singoli condòmini.
In ogni caso, trattandosi di questione afferente all’uso delle cose comuni, l’azione giudiziale deve essere preceduta dall’esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione ex artt. 71-quater disp. att. c.c. e 5 d.lgs n. 28/2010.
In tal caso la decisione sulla partecipazione alla procedura de quo deve essere sempre assunta dall’assemblea (art. 71-quater disp. att. c.c.).
La competenza a decidere su questo genere di controversie è del giudice civile: ci si deve rivolgere al Giudice di Pace laddove qualora si tratti di controversia afferente alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case (art. 7 c.p.c.), al Tribunale nelle altre ipotesi.
Qualora ad essere oggetto di contestazione è la violazione di norme urbanistico-edilizie l’autorità competente cui segnalarle in prima istanza è il comune del luogo di ubicazione dell’immobile. Quanto al tipo di segnalazione, questa va valutata caso per caso: può trattarsi di una richiesta di assunzione di un provvedimento di diniego, ovvero prescrittivo, a seguito di presentazione della SCIA, può trattarsi di una richiesta di revoca del provvedimento assunto nella forma del silenzio assenso, nel caso di scadenza del termine inerente ai provvedimenti susseguenti SCIA. Può trattarsi, infine, di una denuncia circostanziata in corso od alla fine dell’opera.
Il giudice competente per il caso di adozione o mancata adozione di provvedimenti susseguenti alla presentazione della SCIA ovvero all’ottenimento dell’assenso, in qualunque forma reso, è il giudice amministrativo, in primo grado il TAR territorialmente competente.
Le due vicende seguono strade parallele e possono giungere al medesimo risultato o a risultati differenti. Ciò vuol dire che un’opera può essere legittima sotto ogni profilo, illegittima per entrambi gli aspetti, ovvero lecita ex art. 1102 c.c. ma lesiva delle norme urbanistico-edilizie, od infine il contrario.