Rivendica e beni condominiali
Esaminiamo oggi una complessa vicenda immobiliare per tentare di comprendere meglio l’onere della prova imposto al proprietario nel caso dell’azione di rivendica rispetto ad ogni altra azione concernente la proprietà o il possesso.
Rivendica e beni condominiali: La pronuncia
Un Condominio avvia un giudizio citando Tizia.
Afferma il Condominio che l’edificio era stato edificato negli anni ’70 dall’impresa Mario Rossi su un’area di tremila metri quadri circa, acquistata due anni prima con tre distinti atti e che, in virtù di detti atti, il Condominio aveva acquistato anche la proprietà di una struttura, posta a sinistra della rampa carrabile di accesso al complesso, costituita da un terrapieno ed un vano scala.
Il terreno su cui fu edificato il Condominio apparteneva a Caia e Sempronio che, nel 1948, alienarono a Mevio un fabbricato con locali accessori, garage, fondo rustico e casa colonica, esclusa una parte di fabbricato, ceduta invece a Filana e costituita da un appartamento sito al piano primo del maggior complesso venduto a Mevio, posto all’angolo sud del fabbricato e confinante a sud con un vicolo, a ovest con un muraglione di proprietà di Mevio e a nord con una scala di servizio della scala e del terreno soprastante al piano terreno, alienato a Mevio.
Con il medesimo atto, Mevio si riservò il diritto di chiudere l’accesso tra l’appartamento di Filana e la scala di servizio di accesso al proprio terreno.
Nel 1953, il Tribunale trasferì a Filana, con decreto di trasferimento emesso a seguito di esecuzione immobiliare, una casa di abitazione posta a piano terreno e nella perizia allegata all’ordinanza di vendita si specificava che era obbligo degli aggiudicatari chiudere in muratura il vano di porta indicato meglio nella perizia; mentre l’altro lotto posto all’incanto, di cui faceva parte un piccolo vano con la scala ad unica rampa che immetteva al terrazzo, rimase di proprietà di Mevio che poi, nel 1954, cedette al Sig. Verdi, a favore del suo fondo rustico sito a monte della proprietà di Mevio, la servitù di passaggio attraverso la scala secondaria della sua casa con accesso dal portone sulla via XY.
Inoltre, Mevio vendette al Sig. Verdi una striscia di terreno che parte dal casotto terminare della scala anzidetta e termina al confine con la proprietà Verdi. Nell’atto stipulato tra Mevio ed il Sig. Verdi nel 1954 venne convenuto che il Sig. Verdi, per esercitare la servitù di passaggio e pervenire alla striscia di terreno acquistata avrebbe dovuto aprire un varco nel muro sud del casotto tra il pianerottolo della scala e l’inizio della striscia di terreno.
Nel 1963, poi, Mevio vendette ad altre 4 persone tutto ed intero il terreno edificabile acquistato nel 1948 da Caia e Sempronio, esclusi i lotti aggiudicati a terzi nel 1953, ma nella vendita agli altri 4 veniva incluso il secondo lotto, rimasto in proprietà di Mevio. L’impresa Mario Rossi acquistò poi lo stesso terreno dalle 4 persone e vi realizzò il Condominio.
Nel 2005 Tizia, proprietaria della villa ex Filana per averla acquistata, aveva ritenuto lecita l’esecuzione di opere all’interno ed all’esterno del vano scala – a detta del Condominio, abusive – nonché sul muro posto al confine tra la sua proprietà e quella del Condominio.
In particolare, Tizia chiuse il varco di accesso al terreno che era stato di Mevio e sul quale oggi sorge il Condominio e chiuse anche il varco di accesso a suo tempo aperto per l’esercizio della servitù a favore del Sig. Verdi e del suo fondo.
Tizia aveva altresì aperto un varco all’interno del vano scala verso un cortile della villa ex Filana ed aveva demolito e ricostruito il muro di confine omettendo di ripristinarlo per l’intera altezza precedente.
Infine, nel 2006, Tizia si era nuovamente introdotta nella proprietà del Condominio per installare una ringhiera sul lastrico di copertura del vano scala.
Pertanto, il Condominio domandava che il Tribunale dichiarasse vano scala, casotto e copertura di proprietà comune dei suoi condòmini e, all’uopo, ordinasse a Tizia di rilasciare vano e casotto liberi da cose e persone e nella piena disponibilità del Condominio e nello stato di fatto quo ante ai lavori abusivi eseguiti.
Il Tribunale rigettava la domanda.
Il Condominio propone appello, ma la Corte d’Appello di Messina, con la sentenza n. 426 del 23 giugno 2022, lo rigetta.
La rivendica e l’attenuazione dell’onere della prova
Il Condominio censura la sentenza impugnata nella parte in cui l’azione proposta in primo grado è stata qualificata come azione di rivendicazione.
L’azione di rivendica è quell’azione a tutela della proprietà, prevista dall’art. 948 c.c., che viene avanzata dal proprietario contro chiunque possegga o detenga la cosa oggetto del suo diritto.
Secondo il Condominio, rispetto al manufatto (vano scala e casotto), l’azione che lo stesso aveva proposto era di rivendicazione, mentre, con riferimento ai terrazzini sovrastanti, l’azione andava invece qualificata come azione di riconoscimento della proprietà, in quanto i predetti terrazzini erano sempre stati nel possesso del Condominio, nonostante alcune ‘molestie’ da parte di Tizia, per le quali era stata attivata un’apposita azione di manutenzione, la quale ovviamente presuppone il possesso.
L’accertamento della proprietà dei terrazzini – prosegue l’appellante – non richiedeva quindi il rigore probatorio proprio dell’azione di rivendicazione non rivestendone la qualità.
Ma la Corte d’Appello rileva che il ragionamento del Condominio non convince e che il Tribunale aveva già fatto notare che, anche qualificando la domanda come accertamento della proprietà, sul Condominio sarebbe comunque gravato l’onere di provare il suo titolo, cioè che sussisteva la proprietà in capo ai singoli condòmini dei beni in discussione, qualora il Condominio non avesse il possesso del bene.
Ora, siccome del possesso dei suddetti terrazzini non è stata fornita prova nel I°, così come l’esito dell’azione di manutenzione del Condominio contro Tizia ha rivelato che tale possesso non sussisteva, il Condominio rimaneva obbligato a fornire la rigorosa prova della proprietà, non potendo avvalersi dell’attenuazione concessa al possessore – dato che il Condominio possessore non era, o meglio, non era riuscito a fornirne prova.
In ogni caso, anche il diritto di proprietà non era stato sufficientemente provato dal Condominio, non bastando a ciò nemmeno l’atto di acquisto dell’impresa Mario Rossi che poi realizzò l’edificio.
La prova della proprietà
Il Condominio censura, inoltre, la sentenza impugnata sostenendo di avere fornito prova della proprietà dei beni oggetto di causa, come verificato dal CTU, producendo sia il primo atto del 1948, con cui Caia e Sempronio trasferivano a Mevio e Filana, sia l’ultimo, con cui le 4 persone acquirenti da Mevio vendevano all’impresa Mario Rossi nel 1968.
Sostiene il Condominio che «la situazione catastale non corrisponde alla situazione risultante dai pubblici registri immobiliari e “rende evidente che, quando ha ristrutturato il suo appartamento, Tizia si è fatta lecito di ristrutturare… anche le risultanze catastali, ampliando la rappresentazione del suo immobile, senza tuttavia riuscire a modificare la rappresentazione grafica del foglio di mappa”» ed assume come la struttura contesa sia transitata a doppio titolo (proprietà e contestuale possesso) dai coniugi Caia e Sempronio a Mevio e da costui pro quota al primo dei condòmini del complesso edilizio realizzato dall’impresa Mario Rossi.
Tra le varie motivazioni addotte a corredo del suddetto motivo di impugnazione, vi è anche quella relativa alla circostanza per cui ciascuno dei proprietari succedutisi nel tempo aveva maturato una propria usucapione ventennale (ex art. 1158 c.c.), anzi una decennale o abbreviata in quanto nascente da titolo astrattamente idoneo ad acquistare la proprietà.
Inoltre, secondo il Condominio, sussistevano le condizioni per ottenere uno ‘sconto’ sul rigore della prova della proprietà, consistenti nella mancata contestazione, da parte di Tizia, della comune origine della proprietà dei rispettivi immobili (il Condominio e i beni appartenenti a Tizia), dato che Tizia si era limitata ad affermare di avere posseduto la struttura contesa da oltre 25 anni, formulando un’eccezione riconvenzionale tendente a sostenere la proprietà del bene conteso per intervenuta usucapione o comunque assumendo un comportamento processuale chiaramente indicativo di una non contestazione della proprietà.
La Corte d’Appello rileva però come le premesse teoriche da cui è partito il Tribunale per emettere la sentenza impugnata siano corrette.
Il Tribunale, muovendo dal presupposto che Tizia non aveva riconosciuto “l’originaria proprietà del bene sulla base dei titoli trascritti nei registri immobiliari”, ha ritenuto che nella specie non operasse alcuna attenuazione dell’onere della prova in capo al Condominio, sicché lo stesso avrebbe dovuto provare di essere diventato proprietario della cosa rivendicata, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario, o dimostrando il possesso proprio e dei suoi danti causa per il tempo necessario per l’usucapione.
Nella specie – ha osservato il Tribunale – il Condominio aveva omesso di articolare i mezzi istruttori necessari allo scopo di fornire in giudizio la prova rigorosa del possesso utile ad usucapionem.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione in tema di onere della prova e rivendica, «i principi in tema di prova nel giudizio di rivendica non hanno carattere assoluto, ma vanno adeguati alle particolarità del caso concreto.
Ne consegue che il rigore della prova si attenua allorquando il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa o ad uno dei danti causa dell’attore, e contrapponga l’esistenza di un suo titolo derivativo di proprietà che abbia per presupposto l’originaria appartenenza del cespite al dante causa indicato dal rivendicante, bastando, in tal caso, che questi si limiti a dimostrare che il bene medesimo ha formato oggetto del proprio titolo d’acquisto, perché la proprietà sia attribuita alla parte che ha addotto un titolo prevalente rispetto a quello dell’altra». (Cassazione n. 15338/2005).
Tuttavia, nel caso di specie, non solamente manca la non contestazione da parte di Tizia, che nella propria difesa in appello aveva ribadito di ritenere che i beni le appartenessero in via esclusiva in forza dei titoli di trasferimento continui prodotti, ma soprattutto e comunque manca la prova di un possesso ad usucapionem in capo di condòmini che possa valere, fallita la prova della proprietà, a sostenere che il Condominio abbia acquisito i manufatti a titolo originario.
Va aggiunto sul punto che «il contratto di vendita di un bene non prova, di per sé, l’acquisto del possesso da parte dell’acquirente, occorrendo a tal fine la prova del possesso del venditore e dell’immissione nel possesso dell’acquirente (Cassazione n. 21940/2018)».
La Corte d’Appello conclude poi esaminando le risultanze della CTU, che non condivide, in quanto, dall’esame del contenuto degli atti di trasferimento, risulta evidente che le strutture oggetto di giudizio non furono oggetto di trasferimento ai 4 acquirenti di Mevio e, pertanto, non pervennero al Condominio – ulteriore motivo per cui l’unico modo per affermare la proprietà delle strutture sarebbe stato poterne dimostrare il possesso ultraventennale e, quindi, l’usucapione, non valendo in questo caso quella abbreviata, perché difetta il titolo astrattamente idoneo, dato che la vendita da Mevio ai 4 acquirenti e da costoro all’impresa Mario Rossi non includeva le strutture in parola.
Sentenza
Scarica App. Messina 23 giugno 2022 n. 426