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Il licenziamento per comportamenti trasgressivi extralavorativi

Il prevalente rigetto, da parte della Suprema corte, dei ricorsi giudiziari dei lavoratori licenziati per condotte disdicevoli tenute al di fuori dell’azienda, non può non suonare come inequivocabile sconfessione del convincimento nutrito da quelli tra i lavoratori che, erroneamente, hanno ritenuto e ancora ritengono che vi sia una netta separazione tra come il lavoratore è tenuto a comportarsi in azienda e come – più liberamente, ma pur sempre civilmente – può manifestare la propria personalità al di fuori dell’ambiente di lavoro, nel cd. privato.

Tale scissione comportamentale, se non è insussistente in assoluto, è di norma inidonea a rendere tollerabili le condotte dei prestatori di lavoro censurabili o sconvenienti, anche se praticate nel privato o in ambito extralavorativo, giacché, se intrinsecamente riprovevoli, ben possono essere utilizzate dal datore di lavoro per risolvere, per giusta causa, un rapporto di lavoro con un prestatore che, in precedenza sul posto di lavoro, non è mai stato destinatario di rilievi e non ha mai dato occasione alla direzione aziendale di lamentarsi.

2. La cd. “vulnerazione” fiduciaria del rapporto

Sul presupposto che la personalità dell’uomo si estrinseca, ordinariamente, tramite comportamenti tendenzialmente uniformi – ritenendosi confinati nell’eccezionalità gli sdoppiamenti di essa – le vicende extralavorative hanno, da sempre, ricevuto una vigile attenzione da parte delle imprese operanti con lavoratori alle dipendenze, nelle quali tra datore e lavoratore notoriamente intercorre non solo un mero rapporto sinallagmatico (prestazione contro retribuzione) ma anche, come si usa dire, di carattere fiduciario.

Talché, una volta che l’impresa abbia notizia o cognizione che il comportamento tenuto dal dipendente, anche al di fuori dell’orario di lavoro, sia di tale gravità da presentarsi incompatibile con l’affidamento che essa ha presupposto ricorrente per indurla all’assunzione e, successivamente, ha riposto (in) o atteso da quel lavoratore, la stessa si sente, a buon diritto, legittimata a risolvere il rapporto, per giusta causa.

E, molto spesso, l’impugnazione in giudizio del licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. (causa che non contente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto), trova il lavoratore soccombente, giustappunto per il fatto che lo stesso, nella vita privata, è incorso non saltuariamente in condotte contrarie al cd. minimo etico comune o a norme comuni del vivere civile, tali da infrangere il rapporto fiduciario intercorrente tra le parti.

L’esame di una ricca casistica di provvedimenti espulsivi, per comportamenti censurabili dei dipendenti, posti in essere in ambito extralavorativo – sottoposti al vaglio della giurisprudenza di merito e di legittimità nel corso del tempo, fino ad oggi – documenta il passaggio da un‘iniziale posizione giurisprudenziale nettamente restrittiva, ante legem n. 604/1966 sui licenziamenti individuali, ad una moderatamente più tollerante (dopo la sua entrata in vigore e orientativamente fino alla prima decade del secolo in corso), per poi assumere nuovamente un atteggiamento giudicabile non rigido come ai tempi iniziali ma comunque meno liberale, anzi più restrittivo e sanzionatorio verso le condotte extralavorative dei prestatori, ipoteticamente censurabili, avallando, in prevalenza, i licenziamenti individuali per giusta causa, disposti dalle imprese.

Una cronistoria evidenzia come, inizialmente e fino agli anni ’60 del secolo passato, sia incorso nel licenziamento in tronco – per causa tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.) – il lavoratore sposato che intratteneva relazioni amorose extralavorative con collega nubile (i), il convivente more uxorio (ii), l’insegnante di un istituto confessionale sposatosi con il solo rito civile (iii), il lavoratore i cui familiari avevano tenuto atteggiamenti irriguardosi o indirizzato ingiurie nei confronti del di lui datore di lavoro (iv), il prestatore indebitatosi, a seguito di operazioni speculative in borsa, oltre il proprio livello reddituale (v), quello incappato in reati patrimoniali a carico di terzi e senza alcun coinvolgimento dell’azienda (vi), quello reo di aver omesso, per eccessivo rispetto del principio di gerarchia, di riferire delatoriamente all’imprenditore fatti illeciti commessi dal superiore diretto (vii), i lavoratori colpevoli di aver intentato e vinto una causa, per la qualificazione “subordinata” del rapporto di lavoro, contro il recalcitrante datore di lavoro (viii), il tecnico Rai detentore, al di fuori dell’ambiente e dell’orario di lavoro, di sostanze stupefacenti ad uso personale (ix).

Sebbene diverse di queste fattispecie abbiano trovato, in magistratura. corretta soluzione (nel senso che è stata disattesa la pretesa ricorrenza della giusta causa, per estraneità al rapporto delle vicende assunte come vulneratrici della “fiducia” datoriale, – specie nel caso di addebiti afferenti alla vita sentimentale, in ragione senz’altro di una liberalizzazione dei costumi (senza che per questo i comportamenti e le tresche amorose perdessero di per sé il loro carattere disdicevole) – altre ipotesi non sono state, invece, decise con analoga modernità ed assenza di pregiudizi. Più che pregiudizi, tuttavia, possono aver talvolta giocato a sfavore dei lavoratori subordinati reali e comprensibili preoccupazioni della magistratura, quali il timore che posizioni libertarie e tolleranti finissero per incentivare – per impunità – il novero dei comportamenti non conformi all’ordinamento.

3. L’orientamento giurisprudenziale più permissivo

Successivamente, nell’arco temporale 1970-1990, l’orientamento giurisprudenziale appare atteggiarsi, invece, a maggiormente garantista della conservazione del posto di lavoro, in presenza di comportamenti extralavorativi pur sempre riprovevoli, sulla base dell’asserito principio di diritto, secondo cui: «i fatti ed i comportamenti del lavoratore estranei all’ambito contrattuale, non verificatisi nel corso e nel luogo dell’attività lavorativa, sono, in linea generale, irrilevanti ai fini della valutazione degli addebiti quando non abbiano alcuna incidenza sulla sfera contrattuale. Quando, invece, tali comportamenti siano collegati, sia pure indirettamente, con l’esecuzione della prestazione lavorativa, oppure assumano un rilievo talmente grave da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto di lavoro, non v’è dubbio che essi valgono a determinare un’irreparabile compromissione dell’elemento fiduciario, che costituisce la base del rapporto di lavoro subordinato, specialmente quando tale rapporto, per le sue caratteristiche e peculiarità, richiede una collaborazione qualitativamente elevata e una fiducia correlativamente molto lata, che può estendersi anche alla serietà dei comportamenti privati del lavoratore»(x).

Alla necessità di effettuare una più circospetta e attenta considerazione dell’incidenza dei comportamenti extralavorativi riprovevoli a determinare il licenziamento individuale per “giusta causa”, concorreva in maniera determinante – negli ultimi decenni del secolo scorso – una precisazione riduttiva dell’ampiezza della nozione di “giusta causa” da parte della Cassazione, così espressasi: «Un’oramai remota giurisprudenza affermava che, con la generica definizione di giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 c.c., il legislatore aveva inteso riferirsi a qualunque vicenda (e non solo a comportamenti inadempienti del lavoratore) che non consentisse la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto stesso; successivamente alla entrata in vigore della legislazione limitativa dei licenziamenti, a partire dalla legge 604/’66, la giurisprudenza, confortata dalla dottrina dominante, ha ritenuto che il concetto di giusta causa, così genericamente individuato dall’art. 2119 c.c., trovi la sua più precisa definizione nella stessa definizione recata dalla legge n. 604/’66 del giustificato motivo soggettivo (“notevole inadempimento agli obblighi contrattuali”) Cosicché la giusta causa si differenzia dal “giustificato motivo soggettivo” non già dal punto di vista qualitativo, trattandosi in entrambi i casi di comportamenti inadempienti del lavoratore, bensì sotto il profilo quantitativo, nel senso della maggiore gravità dell’inadempimento, tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto» (xi).

Tuttavia la nozione più circoscritta della “giusta causa” – identificata nella commissione di una inadempienza ben più grave di quella legittimante il licenziamento per “giustificato motivo soggettivo” – non precludeva, né, naturalmente, preclude a tutt’oggi, l’esercizio della facoltà detenuta dagli agenti contrattuali, di raggiungere, in sede di stipula dei CCNL, pattuizioni (poi inserite e strutturanti i cd. codici disciplinari dei ccnl di categoria), tese a far assumere rilevanza disciplinare a determinati comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata ed estranei all’esecuzione della prestazione.

Ne è conferma, esemplificativamente, il divieto contrattualmente contemplato per il lavoratore bancario di giocare in borsa, divieto che era stato giudicato, già in epoca fascista (anno 1929), disciplinarmente sanzionabile – pur in assenza, all’epoca, di una esplicita previsione inibitoria – sulla base di una tecnica argomentativa di “processo alle intenzioni” che si sostanziava nella considerazione per cui «il fatto di darsi al gioco di borsa senza avere per giunta i mezzi per fronteggiare le perdite, costituisce per il cassiere di banca una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto d’impiego, perché distrugge in pieno quella fiducia che è il presupposto logico e fondamentale del rapporto stesso e fa nascere il ragionevolissimo timore che il giocatore imprudente, assillato dall’ansia di allontanare da sé l’avvilente minaccia dell’esecuzione, possa mettere da un momento all’altro le mani nella pingue cassa a sua piena disposizione» (xii).

Giustappunto la previsione limitativa in tal senso, successivamente introdotta nel ccnl delle aziende di credito, evidenzia che l’inibizione di quel comportamento non è necessariamente immanente al prestatore di lavoro in conseguenza diretta del suo status di subordinazione nello specifico settore bancario, ma addizionalmente conseguente ad una pattuizione contrattuale convenuta tra le controparti sindacali dei datori e dei lavoratori, volta a salvaguardare esigenze di aziende alle quali – si dice per consuetudine – il cittadino/utente richiede maggiore affidabilità, per effetto della gestione delle proprie risorse finanziarie e dei propri patrimoni.

Verso la fine del secolo scorso l’atteggiamento giurisprudenziale, orientato a conferire la minima o nulla rilevanza all’incidenza delle condotte private extralavorative censurabili, aveva occasionato, in presenza di reati da detenzione e/o spaccio di stupefacenti – purtroppo sempre più ricorrenti nei tempi attuali – affermazioni giurisprudenziali del seguente tenore: «i comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa possono incidere radicalmente sul vincolo fiduciario per la loro gravità e risonanza nonché in considerazione delle mansioni espletate dal dipendente e della particolare natura dell’azienda datrice di lavoro, ma non possono rilevare ai fini della dedotta giusta causa di licenziamento, allorché non abbiano prodotto effetti riflessi nell’ambiente di lavoro e tanto meno nociuto al prestigio dell’Ente datore di lavoro” (xiii). Aggiungendosi che: «ha diritto ad essere reintegrato nel suo posto di lavoro ed a far parte della comunità sociale e professionale del lavoro, il dipendente che sia stato licenziato per spaccio di droghe leggere, sia perché il consumo di tali sostanze è sentito dalla coscienza sociale – quando non è tollerato – come un disvalore di grado assai inferiore rispetto alle c.d. droghe pesanti, sia perché nel fatto commesso non è ravvisabile alcun nesso, né funzionale né occasionale, con l’attività lavorativa prestata in qualità di manovratore ferroviario»(xiv).

Ancora, verso la fine del secolo scorso, nel caso di un primario di un istituto ospedaliero condannato per il furto di una tela da una chiesa e, quindi, licenziato, il magistrato ha asserito che: «il comportamento penalmente rilevante del lavoratore (che deve essere valutato considerando la personalità dello stesso e la sua condotta complessiva nello svolgimento della prestazione lavorativa) non è idoneo a ledere l’elemento fiduciario e, quindi, non può costituire giustificato motivo di licenziamento, allorché, oltre ad esaurirsi in un singolo episodio, sia del tutto estraneo all’esecuzione della prestazione lavorativa e non incida in alcun modo sull’aspetto tecnico della professionalità del dipendente, riguardando invece l’aspetto etico comportamentale» (xv).

Anche in caso di condanne penali per “tentata estorsione” (a danno di terzi da parte di dipendente delle FF.SS.) e di “tentato furto con danni ad un supermercato” (da parte di macchinista dell’Ente Ferrovie) venne asserita l’illegittimità del licenziamento per presunta vulnerazione del vincolo fiduciario, in quanto detta compromissione doveva essere intesa non già in senso generico ma nel senso specifico di una ragionevole probabilità di pregiudizio del corretto adempimento delle mansioni contrattuali (xvi).

4. L’orientamento giurisprudenziale più rigidamente connotato

A partire all’incirca dall’anno 2000 in poi, la giurisprudenza di Cassazione ha, invece, maturato un orientamento più restrittivo, procedendo, innanzi tutto, con l’azzerare le eccezioni sollevate insistentemente in giudizio dai legali del lavoratore inadempiente o trasgressivo, incentrate formalisticamente – nell’ottica di porre nel nulla la sanzione a carico del ricorrente – sul preliminare rilievo della mancata previsione della sanzione corrispondente alla condotta disdicevole nel cd. codice disciplinare contrattuale ovvero della mancata affissione di esso in azienda, a fini di pubblicità, ai sensi dell’art. 7, l. n. 300/70 (cd. Statuto dei lavoratori).

A parte la considerazione di fondo che le condotte vietate e sanzionate nel codice disciplinare convenuto dalle parti non esauriscono affatto la serie degli eventuali comportamenti illeciti, in ragione del fatto che le causali sono giustappunto designate di norma quali “esemplificazioni”, nonché del fatto che la loro pubblicità è solo funzionale a limitare l’eventuale discrezionalità datoriale, condizionandola ad una graduazione delle misure sanzionatorie correlata alla minore o maggiore gravità della condotta, è stato osservato come nessun dubbio sussista sul fatto che il lavoratore, anche in assenza di previsione nel codice disciplinare, possiede sempre la piena cognizione di essersi, quando devia, comportato male.

Partendo da questo presupposto, la Cassazione ha stabilito, conseguentemente, che: «anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative – e non per le sole sanzioni espulsive – deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta»(xvii).

La giurisprudenza di legittimità ha, quindi, asserito che quando il comportamento lavorativo o extralavorativo riveste carattere di contrarietà al cd. minimo etico o alle norme del comune vivere civile, la sanzione è pacificamente irrogabile dal datore di lavoro, anche in forma espulsiva, a prescindere dalla mancata affissione in azienda del codice disciplinare o dalla mancata previsione di quella condotta trasgressiva nelle “esemplificazioni” contrattuali, dovendosi ritenere delegata al magistrato la valutazione di proporzionalità della sanzione alla trasgressione, a fini del rispetto di congruità preteso dall’art. 2106 c.c.

D’altra parte, argomenta la Suprema corte: «La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo. Ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede dì legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato»(xviii). Quest’ultima ipotesi è, in concreto, attualizzata tramite la cd. “derubricazione” della sanzione contrattuale – effettuata dal magistrato – giacché ritenuta sproporzionata alla trasgressione compiuta, convertita in sanzione più lieve.

Ne è sortito il consolidato orientamento giurisprudenziale, espresso da ultimo, in questi termini: «in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto “minimo etico” (Cass. 3 ottobre 2013 n. 22626; vedi anche Cass. 18 settembre 2009 n. 20270 secondo cui in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro)» (xix).

Alla stregua di questo, oramai consolidato orientamento, sono stati legittimati (xx) i licenziamenti per giusta causa di lavoratori che sono stati scoperti essersi avvalsi dei permessi ex lege n. 104/1992 per finalità diverse dall’assistenza del familiare gravemente handicappato, mediante utilizzo, da parte aziendale, di agenzia investigativa di cui è stato legittimato il controllo occulto (cd. di natura difensiva), da parte di una nutritissima giurisprudenza di Cassazione.

Nella precitata fattispecie di irregolare fruizione dei permessi ex lege n. 104/’92, la Suprema corte, ha condiviso le valutazioni del giudice di merito che aveva statuito che: «il comportamento del lavoratore, implica un disvalore sociale giacché il lavoratore aveva usufruito di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sull’ intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e obbliga il datore di lavoro ad organizzare, ad ogni permesso, diversamente il lavoro in azienda e costringe i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa». Aggiungendo altresì che: «l’abuso del diritto, nel caso di specie, è particolarmente odioso e grave, ripercuotendosi senz’altro sull’elemento fiduciario, trattandosi di condotta idonea a mettere in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti» (xxi).

La “vulnerazione” del rapporto fiduciario implicante legittimità del licenziamento per giusta causa – in ragione di comportamento contrario al minimo etico – è stata riconosciuta anche in ipotesi di simulazione di impedimento fisico per non recarsi al lavoro (xxii); mentre in ambito bancario sono state respinte le eccezioni del direttore di filiale che, avendo compiuto una serie di trasgressioni alle norme e prassi aziendali in tema di concessione finanziamenti, aveva tentato di invalidare il licenziamento disciplinare adducendo l’inosservanza aziendale della pubblicità del codice disciplinare. Al riguardo la Cassazione, riconfermando il suo orientamento, ha osservato che: «ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione»(xxiii).

Legittimati, in particolare, sono stati i licenziamenti per condanne penali da detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in fattispecie in cui la condotta del dipendente è stata valutata dal magistrato, oltreché lesiva del vincolo di fiducia idonea ad arrecare un danno di immagine per l’azienda stessa (xxiv); altresì in caso di condanna per spaccio di sostanze stupefacenti compiuto da un addetto alla cura e all’assistenza degli anziani (xxv); nonché in presenza di condanna per spaccio di sostanze stupefacenti compiuto da un operaio addetto alle mansioni di carrellista in una catena di montaggio  che aveva anche sottaciuto la sua sottoposizione agli arresti domiciliari nel periodo nel quale egli risultava assente per malattia (xxvi); in fattispecie di condanna per violenza sessuale, tenuto conto anche del “forte disvalore sociale” dei fatti e dall’eco mediatico (xxvii); di condanna per falsa testimonianza resa dal lavoratore in una causa civile (xxviii); di condanna per emissione di assegni a vuoto  da parte di un dipendente bancario (xxix); di condanna per reato di ricettazione  compiuto da dipendente di istituto di credito (xxx).

La Cassazione (xxxi) ha, poi, conferito pacifica idoneità a concretizzare la giusta causa di licenziamento a comportamenti extralavorativi connotati da elevata gravità, asserendo principi di diritto estensibili ad analoghi, seppur diversi, comportamenti contrari all’etica comune o ai comuni canoni del vivere civile.

Con ulteriori decisioni la Cassazione mostra, poi, di preferire un’interpretazione estensiva della giusta causa di recesso, nella cui nozione devono includersi «anche condotte che, pur se concernenti la vita privata del lavoratore, tuttavia possono risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa». (xxxii).

Infine la Cassazione si è – per così dire – spinta a legittimare i licenziamenti adottati per comportamenti penalmente sanzionati in precedenti rapporti di lavoro, dei quali l’azienda, nuova datrice di lavoro, sia venuta a conoscenza a posteriori. La riferita legittimazione del licenziamento per fatti penalmente rilevanti compiuti nel precedente rapporto di lavoro esaurito, è avvenuta nella fattispecie di un dipendente di Equitalia Sud spa, di cui Equitalia aveva successivamente appreso che – in un precedente rapporto, già concluso con essa, ma poi ricostituito ex novo dalla stessa Equitalia, per effetto di transazione novativa – lo stesso si era adoperato, non disinteressatamente, per consentire sgravi indebiti di cartelle esattoriali a favore di taluni contribuenti ma a danno dell’erario, e per questo era stato raggiunto da ordinanza di custodia cautelare. La decisione di Cassazione (xxxiii) ha pertanto asserito, in motivazione, il seguente principio di diritto: «Da tempo questa Corte ha affermato che è ravvisabile una giusta causa di licenziamento ogniqualvolta venga irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto, perché il datore di lavoro deve poter confidare sulla leale collaborazione del prestatore e sul corretto adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono a carico di quest’ultimo. La fiducia, che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività (cfr. fra le più recenti Cass. n. 24023/2016 e Cass. n. 17166/2016)».

Aggiungendo che: «le condotte extralavorative che possono assumere rilievo ai fini dell’integrazione della giusta causa afferiscono non alla sola vita privata in senso stretto bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non devono essere necessariamente successive all’instaurazione del rapporto, sempre che si tratti di comportamenti appresi dal datore dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente e dal ruolo da quest’ultimo rivestito nell’organizzazione aziendale (…) per cui a maggior ragione assume rilevanza ai suddetti fini la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione».

In questo rigoroso contesto, nello stesso anno 2019, si registra un’altra decisione della Suprema corte (xxxiv) improntata, in quel caso, ad una più “aperta” valutazione di un comportamento extralavorativo censurabile, la quale – dietro esame di una fattispecie in cui il licenziato era incorso in condanna penale per reato di minacce gravi, al di fuori dell’ambiente lavorativo, nei confronti di un terzo, poi vittima di omicidio – si è così espressa: «la minaccia pronunciata fuori dall’ambiente lavorativo e nei confronti di soggetti estranei ha una valenza diversa, nell’accertamento della lesione irreparabile del vincolo fiduciario, rispetto a quella proferita nei confronti del datore di lavoro o in ambito lavorativo, perché non incide intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente nei confronti di un suo superiore. Essa, infatti, quando – come nel caso de quo – non risulti avere un riflesso sulla funzionalità del rapporto e non abbia compromesso le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, non si rivela incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario al quale il rapporto di lavoro stesso si fonda né si manifesta come una condotta gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile tale da costituire giusta causa di licenziamento. Correttamente, quindi, il comportamento del V. è stato ritenuto non idoneo a ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto di lavoro secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale».

5. Conclusioni

L’attuale orientamento che si sta affermando negli ultimi anni, con tendenza al consolidamento, può considerarsi condivisibile anche in ragione del suo carattere sollecitatorio alla formazione nei lavoratori di una corretta coscienza sociale, dotato altresì di una tendenziale finalità scoraggiante comportamenti  non conformi alle regole sia giuridiche che etiche, ovverosia del vivere civile in una comunità.

Peraltro una certa perplessità desta la valorizzazione – ai fini dello scuotimento del rapporto fiduciario – dei comportamenti disdicevoli  extralavorativi compiuti non già nel rapporto in atto ma anteriormente alla sua costituzione; perplessità non tanto per l’accordata potenzialità del loro utilizzo in linea teorica quanto per il pericolo di costituire, in via di fatto, una inattesa chance per i datori di lavoro a fini di una inammissibile “scrematura” delle c.d. mele marce dalle mele sane, in ragione, molto spesso, dell’utilizzo  strumentale all’espulsione di lavoratori incappati nella commissione di atti e/o  comportamenti facenti parte di errori di un passato che gli stessi possono aver, con il senno di poi, ripudiato.

Talché, esprimiamo l’avviso, che questa legittimazione alla loro riconsiderazione da parte di un nuovo datore di lavoro che ha assunto il dipendente, dovrà trovare il Giudice particolarmente attento e garante che le condotte pregresse – congiuntamente a quelle tenute nel rapporto in atto – siano esclusivamente idonee a corroborare un già maturato convincimento di imbattersi in una personalità criminale conclamata e insuscettibile di regredire.

Anche perché chi ha sbagliato e si è pentito – tramite un processo rieducativo, anche solo interiore – ha il pieno diritto costituzionale di auto realizzarsi o auto sostentarsi economicamente, tramite una stabile occupazione lavorativa.

Note
i Cfr., App. Messina 24 maggio 1962, in Or. Giur. Lav. 1963, 341.

ii Cfr.,App. L’aquila 26 giugno 1949, in Riv. Giur. Abruzz. 1949, 31.

iii Cfr., Cass. 21 novembre 1991, n. 12530, in Giust. Civ. 1962, I, 661; Trib. Firenze 28 febbraio 1992, in Foro it. 1992, I, 2247.

iv Cfr., App. Roma 11 dicembre 1964, in Riv. Giur. Lav. 1965, II, 33.

v Cfr., Trib. Milano 19 giugno 1929, in Mass. Giur. Lav. 1929, 419.

vi Cfr., App. Firenze 1 aprile 1964, in Giur. Tosc. 1964, 777.

vii Cfr., Trib. Genova 13 ottobre 1959, in Or. Giur. Lav. 1960, 328.

viii Fattispecie evidenziata da Cass. 29 giugno 1981, n. 4241, in Mass. Giur. Lav. 1982, 67, che ha correttamente stigmatizzato – e conseguentemente invalidato – come “vendetta” l’illegittimo comportamento ritorsivo aziendale.

ix Cfr. Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. Prat. Lav. 1991, 133

x Così, Cass. 23 luglio 1985, n. 4336, in Riv. It. Dir. Lav. 1986, II, 609, con nota di Ianniello; Cass. 3 aprile 1990, n. 2683, in Mass. Giur. Lav. 1990, 446.

xi Così, Cass. 3 ottobre 2000, n. 13144.

xii Così, Trib. Milano 19 giugno 1929, in Mass. Giur. Lav. 1929, 419

xiii Così, Cass. 3 ottobre 2000, n. 13144.

xiv Cfr., Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. Prat. Lav. 1991, 133.

xv Cfr., Pret. Bergamo 29 luglio 1992, in D&L, Riv. Crit. Dir. Lav. 1993, 171.

xvi Cfr.,Pret. Milano 29 novembre 1994, in D&L, Riv. Crit. Dir. Lav. 1994, 607 e, rispettivamente, Pret. Torino 29 luglio 1993, ibidem 1994, 607.

xvii Ex plurimis, Cass. 27/1/2011 n. 1926.

xviii Così, Cass. sez. lav. n. 4060 del 18/2/2011.

xix Ex plurimis, Cass. 16/8/2016 n. 17113.

xx Cfr., Cass. 30 aprile 2015 n. 8784 e da Cass. 12 maggio 2016 n, 9749.

xxi Così, Cass. 12 maggio 2016 n, 9749.

xxii Cfr., Cass. 16/8/2016 n. 17113.

xxiii Così, Cass., n. 14997 del 2010.

xxiv Cfr., ex plurimis, Cass. 15/10/2021, n.28368, con nota di Poso V., in Rivista Labor, 2021; Cass. 3/12/2019, n.31531; Cass. 10/9/2018, n.21958; Cass. 29/3/2917, n. 8132; Cass. 24/11/2016, n. 24023; Cass. 9/3/2016, n. 4633; Cass.6/8/2015, n. 16524; Cass. 24/5/2015, n.12994; Cass. 17/01/2002, n. 8716. Vedi anche, in tema, la rassegna di Carbone V. Condotte extralavorative e giusta causa di licenziamento, in Questione Giustizia, 23/1/2020.

xxv Cfr., Cass. 3 settembre 2013, n. 20158.

xxvi Cfr., Cass. 9 marzo 2016, n. 4633.

xxvii Cfr., Cass. 30 gennaio 2013, n. 2168.

xxviii Cfr., Cass. 9 marzo 1998, n. 2626.

xxix Cfr., Cass. 24 giugno 2000, n. 8631; Cass. 23 maggio 1992, n. 6180.

xxx Cfr., Cass. 13.04.2002, n. 5332.

xxxi Cfr., Cass. 1 dicembre 2016 n. 24566 (conforme al precedente di Cass. 6 agosto 2015 n. 16524).

xxxii Così, Cass., n.16524/2015, seguita da Cass. n. 25566/2015, precedute in senso conforme, da Cass. nn. 1519/93 e 1355/87.

xxxiii Cass. n. 428 del 9/10/2019, Pres. Di Cerbo, Rel. Di Paolantonio. Conf. Cass. n. 15373/2004 che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di banca rinviato a giudizio per reati commessi in occasione di un pregresso rapporto di lavoro intercorso con altro istituto di credito.

xxxiv Cfr., Cass. 26 marzo 2019, n. 8390.

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