Condizioni per la legittima produzione in giudizio di registrazioni e documenti aziendali
In quest’ottica, ed anche tenuto conto della notoria e diffusa omertà dei colleghi di lavoro – solitamente restii a fornire testimonianze al ricorrente – quest’ultimo non può che attivarsi freneticamente a supportare le proprie rivendicazioni, ricorrendo, di norma, ad allegare al ricorso, redatto dal proprio legale, documentazione cartacea d’ufficio ritenuta maggiormente favorevole, dal lato probatorio, alle rivendicazioni avanzate e della quale è in possesso per esercizio delle proprie mansioni. Trattasi, usualmente, di propri elaborati approntati nel corso dell’attività svolta, di norma sottoscritti o firmati dal superiore o dal dirigente del servizio cui il lavoratore appartiene ovvero di similari documenti aziendali, in originale o in fotocopia. Decisioni giurisprudenziali evidenziano, tuttavia, come talora qualche ricorrente abbia commesso l’errore di produrre documentazione non legittimamente detenuta ma “carpita” dagli archivi aziendali, cui non avrebbe dovuto aver accesso, con la conseguenza di vedersi respinto il ricorso e di incorrere, successivamente, nelle giustificate sanzioni datoriali.
Più di recente, grazie ai progressi tecnologici implicanti la diffusione di cellulari, videocamere di agevole occultamento e similari strumentazioni, è invalso l’uso, più agevole, di produrre in giudizio files – contenuti in chiavette Usb (cd. pennette) – di registrazioni audiovisive o fonografiche, effettuate dal ricorrente stesso in modalità cd. “all’insaputa” dei conversanti o degli ascoltati, tra i quali egli stesso si trova – documentanti conversazioni telefoniche intercorse con responsabili aziendali (o con lo stesso datore di lavoro), ovvero discussioni o diverbi con i colleghi, attestanti il clima socio-ambientale deteriore ed oppressivo, in cui il ricorrente si ritiene indebitamente costretto ad operare.
In presenza di tali allegazioni si è posto – in dottrina e, particolarmente, in giurisprudenza – il problema della idoneità (o meno) del loro utilizzo come prove, unitamente alle condizioni legittimanti la loro presa in considerazione da parte del Giudicante, questione che dopo iniziali ondeggiamenti, ha ricevuto oramai un’accettabile e soddisfacente soluzione, sulla quale ci intratteniamo nei successivi paragrafi del presente scritto.
2. Il panorama giurisprudenziale in tema di allegazione in giudizio di documentazione d’ufficio e registrazioni
Sulla tematica va detto che l’esame comparativo della giurisprudenza della Cassazione evidenzia che la “quaestio iuris” se la produzione in giudizio di documentazione aziendale riservata e/o registrazioni di colloqui, costituisca violazione del dovere di fedeltà, quindi sanzionabile, ovvero comportamento legittimo per finalità difensive in giudizio, risulta nel corso del tempo decisa in modo non uniforme, di cui di seguito diamo, analiticamente, conto:
a) un primo orientamento si è espresso per l’illegittimità di una tale produzione, in quanto la violazione dell’obbligo della riservatezza comporterebbe inevitabilmente la lesione dell’elemento fiduciario e può, quindi, integrare gli estremi della giusta causa (o giustificato motivo) di licenziamento (i). Questa impostazione restrittiva ritenne sussistente l’illiceità del comportamento del lavoratore sia che questi produca in giudizio “originali” di documenti sia “fotocopie” degli stessi, l’unica differenza consistendo, secondo il variegato orientamento giurisprudenziale dell’epoca, nel grado di intensità dell’illecito, tale da ripercuotersi sulla tipologia delle sanzioni dispiegabili (conservative o espulsive, a seconda dei casi).
A titolo esemplificativo, si fa presente che dalla oramai remota Cass. n.2560/1993, sostenitrice di un orientamento intransigente e rigorista, venne condivisa, fatta propria ed enfatizzata una sentenza del Tribunale di Milano che aveva asserito che: «…si è molto discettato sulla distinzione tra asporto di fotocopie e asporto di originale. Il Collegio non ha difficoltà a riconoscere che l’estrazione di notizie mediante fotocopiatura è cosa diversa dall’asporto dell’originale e che la fotocopiatura arbitraria è certamente meno grave dell’asporto dell’originale. Si deve tuttavia riconoscere che anche l’estrazione di copia (rectius, di fotocopia) è un modo di disporre di beni che appartengono all’imprenditore, unico titolare del diritto di stabilire gli utilizzi più conformi ai propri interessi».
Quindi, anche la produzione in giudizio di “fotocopie” di documentazione aziendale (riservata) costituiva violazione dell’obbligo di fedeltà – estrinsecantesi, ex art. 2105 c.c., nel divieto di «divulgare notizie attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio» – disciplinarmente sanzionabile, con la differenza, dal punto di vista della responsabilità penale, che mentre l’asportazione di documento (in originale) di cui non si abbia la disponibilità attualizzava il reato di furto (a causa della sottrazione dagli archivi aziendali), l’utilizzo di documento aziendale di cui si abbia la disponibilità concretizzava il reato di “appropriazione indebita”.
In buona sostanza, la citata decisione di Cassazione (n. 2560/1993) disse che nella fase patologica del rapporto – sconfinato in contrasto giudiziario – il dipendente non può giocare “strappando” le carte dalle mani dell’avversario per rafforzare la propria posizione processuale (sottovalutando, da una posizione troppo partigianamente datoriale, il fatto che il lavoratore, per far accertare e far esprimere, con tempestività, al Giudice un giudizio sulla qualità del proprio lavoro a fini di ottenere il riconoscimento della qualifica superiore, altro non poteva che sottoporre la propria “produzione” alla valutazione del magistrato). Ma per sottrarsi a quest’ultimo rilievo di buon senso, la Cassazione, a suo tempo, eresse le sovrastrutture giuridico-formalistiche ostative per il contraente debole, asserendo che il dipendente che voglia provare le proprie affermazioni può chiedere che il magistrato ordini al datore di lavoro convenuto l’ispezione sulla documentazione probante ex art. 118 c.p.c.
Articolo che così recita: «il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire (…) sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa (…).Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116, 2° co.», ovvero l’esibizione della documentazione medesima ex art. 210 c.p.c. (che così recita: «...il giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o ad un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. Nell’ordinare l’esibizione il giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo ed il modo dell’esibizione»).
Da questo, oramai superato, orientamento si disse, insomma, che il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale delle proprie rivendicazioni e quello del datore di lavoro alla riservatezza, non può essere risolto unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato in sede giudiziaria, nella quale il datore di lavoro – a fronte dell’eventuale ordine di ispezione o di esibizione impartito dal giudice – può resistere a tale comando, preferendo esporsi alle conseguenze che il giudice è libero di trarre ex art. 116 c.p.c. (afferente alla valutazione delle prove), secondo cui: «il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno…, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti nel processo».
Va tuttavia detto, e considerato come esimente, che le motivazioni sopra riferite vennero formulate in un contesto temporale (anno 1993) nel quale ancora non era stato emanato il d.lgs. n. 675/1996, tramite cui il legislatore (all’art. 12, ora 10, co. 4, per modifiche successive), legittimò la produzione in giudizio dei dati personali, svincolandoli dal consenso del detentore (in fattispecie l’azienda datrice di lavoro), nel caso in cui si renda necessario « (…) per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale».
b) Un secondo orientamento ritenne che la “produzione in giudizio di fotocopie” di documenti aziendali riservati costituisse una ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di “sottrazione di documenti”, sicché, nel quadro concreto delle circostanze di fatto, il licenziamento disciplinare poteva essere considerato illegittimo (Cass. n. 1144 del 2000; Cass. n. 4328 del 1996).
c) L’attuale, oramai consolidato orientamento della Cassazione – dissociandosi da quello antecedente, risalente agli anni ’90 del secolo scorso e ai primi anni del 2000 – ha riconosciuto la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza dei dati in possesso di enti privati o pubblici, tanto più che la stessa normativa (art. 12 della legge n. 675 del 1996 e successive modifiche ed integrazioni) in tema di tutela della riservatezza (cd. privacy) non richiede il consenso dell’interessato nell’ipotesi in cui il trattamento sia necessario «per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento».
Hanno fatto da “apripista” di tale orientamento le sentenze della Suprema corte. n. 6420 del 2002 e n. 12528 del 2004, grazie alle quali è stata affermata la fondamentale distinzione tra produzione in giudizio di documenti aziendali riservati al fine di esercitare il diritto di difesa – di per sé da considerarsi lecita – e impossessamento degli stessi documenti, le cui modalità vanno in concreto verificate dal magistrato.
3. L’attuale orientamento in ordine alla produzione di documentazione d’ufficio…(segue)
Nell’esame della specifica tematica va, innanzi tutto, fatto presente che i cd. dati personali, per tali intendendosi (anche) quelli strettamente attinenti all’individuo, sono stati legislativamente protetti, in precedenza dal d. lgs. n. 675/1996 e, allo stato attuale, dal cd. Codice privacy (d.lgs. n 196/2003) che ne inibisce l’appropriazione e la diffusione da parte di terzi, salvo consenso dell’interessato, di essi titolare. Ciò asserito e codificato in linea di principio, va evidenziato come il legislatore abbia, tuttavia, ritenuto meritevole introdurre delle ipotesi derogatorie al suddetto principio, codificate – in precedenza nell’art. 12 (ora 10, co. 4, per effetto di modifiche successive) d. lgs. n. 675/1996 – e, attualmente nell’art. 24, co. 1, lettera f) del suddetto d.lgs. n. 196/2003.
Cioè a dire, ha ritenuto ragionevole mitigare l’assolutezza del diritto alla riservatezza dei dati, disponendo che il loro utilizzo – in linea di principio condizionato al “previo consenso” del titolare – è da tale requisito svincolato, quando, pur «con esclusione della diffusione, è necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale».
Pertanto va detto che tutta la giurisprudenza posteriore all’entrata in vigore della cd. normativa sulla privacy (d.lgs. n.675 e n. 196/2003) – che ha legittimato la produzione in giudizio di documentazione aziendale riservata e di registrazioni di colloqui all’insaputa, per finalità difensive dei propri diritti lesi o suscettibili di essere pregiudicati – trova la propria giustificazione fondante sulle sopra riferite ipotesi derogatorie dell’assolutezza del diritto alla riservatezza dei dati personali, codificate nei provvedimenti legislativi sopra specificati.
Effettuando, poi, un excursus in ambito giurisprudenziale – a partire dalle sentenze iniziali del nuovo secolo, che hanno posto le basi dell’attuale orientamento, fino alle recentissime del 2022 – va evidenziato come meritino particolare apprezzamento nell’esame della tematica, le statuizioni della già citata Cass. 4 maggio 2002, n. 6420, la quale affermò la legittimità della produzione in giudizio di fotocopie di documentazione aziendale riservata, sempreché non sottratta artatamente dagli archivi aziendali non accessibili al prestatore di lavoro, ma detenuta in ragione del disimpegno delle proprie mansioni e, quindi, entrata legittimamente nella sfera della sua disponibilità.
Nella vertenza decisa da questa sentenza che aveva visto, in primo e secondo grado, la soccombenza di un dirigente della filiale di Ancona della Cassa di risparmio di Fano – che aveva prodotto, a titolo esemplificativo, fotocopie di 11 proposte di concessione fidi a clienti (non proseguite dalla direzione della banca), per dimostrare la dequalificazione in cui era stato confinato – la Cassazione accolse il ricorso per reintegra nel posto di lavoro del dirigente licenziato per “violazione dell’obbligo di fedeltà” e riservatezza, affermando la legittimità e non sanzionabilità del di lui comportamento. Motivandolo con le argomentazioni, seguenti, in tal forma riassumibili: «Nell’ipotesi di produzione in giudizio (allo scopo di ottenere il risarcimento del danno derivante da asserita dequalificazione) da parte del lavoratore di copia di documenti aziendali riservati riguardanti clienti di un istituto di credito ed in suo possesso per ragioni d’ufficio, non è configurabile la fattispecie della sottrazione o spossessamento per l’azienda di documentazione riservata ma si versa nell’ipotesi di mera allegazione nel fascicolo processuale di fotocopie detenute in ragione delle proprie mansioni. Tale comportamento finalizzato al diritto di difesa ex art. 24 Cost., che prevale sul diritto di riservatezza dell’azienda (garantito dalla norma elastica dell’art. 2105 c.c.) – considerato anche che non determina la fattispecie della “divulgazione” della documentazione riservata, in quanto esclusivamente prodotta nel processo in cui i soggetti che ne dispongono sono tenuti al segreto d’ufficio –, si rivela pertanto non sanzionabile e quindi legittimo, in quanto non sussistono ab imis i presupposti per l’adozione di un provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo».
Dopo questa decisione, in senso conforme si registra Cass., 7 luglio 2004, n. 12528 che asserì, in senso confermativo, che: «Non integra violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., la produzione in giudizio di copie di atti ai quali il dipendente abbia avuto accesso, giacché tale produzione, avendo ad oggetto copie – e non originali -, da un lato, non costituisce sottrazione di documenti in senso proprio e, dall’altro, essendo finalizzata all’esercizio del diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ed esclusivamente a tale esercizio, con le modalità prescritte dal codice di rito, non comporta divulgazione del contenuto dei documenti ed assolve ad una esigenza prevalente su quella di riservatezza propria del datore di lavoro».
Nello stesso senso, consolidando l’orientamento legittimista, Cass., 7 dicembre 2004, n. 22923, secondo cui: «il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda».
Il principio di cui sopra viene riaffermato, a distanza di anni, da Cass. n. 3038 del 2011, ove – in una controversia per rivendicazione di lavoro straordinario e notturno – i lavoratori avevano depositato in giudizio copia di documentazione aziendale che attestava inequivocabilmente l’effettività dello svolgimento delle prestazioni eccedenti l’orario normale. A fronte del provvedimento sanzionatorio aziendale, la Suprema corte così si espresse: «La produzione doveva ritenersi legittima, per la ragione assorbente che, come sottolineato da questa Corte, “il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda”».
Più recentemente, in senso analogo, si sono espresse, prima Cass. 16 luglio 2012, n. 12119 e poi Cass. 16 novembre 2012, n. 20163, quest’ultima asserendo che: «il lavoratore che in un contesto di accertata vessazione, abbia posto la documentazione aziendale a fondamento di una denuncia proposta unicamente al fine di far valere i propri diritti nonché a far emergere, anche per il suo ruolo di sindacalista attivo all’interno dell’azienda, condotte inadempienti e antisindacali della datrice di lavoro, attua un comportamento legittimo che va esente da qualsiasi sanzione disciplinare».
In questo contesto si segnala, altresì, come da parte di Cass., n. 153/2007 sia stato, invece – peraltro del tutto correttamente – ritenuto illecito il possesso da parte del lavoratore di documenti, in quanto sottratti al datore di lavoro mediante accesso non autorizzato ad una banca dati aziendale e non attinenti all’attività lavorativa del dipendente. Egualmente illegittima la sottrazione di documentazione, poi inoltrata ad una pubblica amministrazione esercitante funzioni di controllo sul datore di lavoro, al fine di far apparire, contrariamente al vero, che l’azienda induceva i lavoratori a violare norme di legge (Cass., n. 6352/1998). Entrambe queste due decisioni, sono da ritenersi corrette per il riscontro, in sede giudiziaria, di una modalità di impossessamento della documentazione pacificamente illecita nonché del deprecabile ’intendimento denigratorio del datore di lavoro, poggiante su affermazioni non veritiere, motivanti la denuncia alla pubblica autorità.
In altra e diversa fattispecie, la più recente Cass. 14 marzo 2013, n. 6501 – occupandosi di una analoga denuncia all’Autorità giudiziaria, corredata da documentazione aziendale prodotta dal lavoratore, a carico e con discredito per il datore – si è espressa legittimando la consegna all’autorità giudiziaria, da parte del lavoratore, di fotocopia di documentazione aziendale idonea a provare l’effettivo comportamento illecito del datore di lavoro (in fattispecie, in relazione ad irregolarità afferenti ad un appalto pubblico per la manutenzione dei semafori cittadini).
La Suprema corte ha qualificato estraneo ai doveri del lavoratore un presunto obbligo di omertà verso il datore di lavoro, così motivando: «Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’A.G. fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto. Neppure costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali». Proseguendo col dire che: «se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all’autorità giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale: diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti, ma impliciti, riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” che ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento […] non può nemmeno lontanamente ipotizzarsi che rientri tra i doveri del prestatore di lavoro il tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile o amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda».
Nel ricordare poi che, essendo oramai assodato che: «il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.», la Suprema corte afferma che: «a maggior ragione, dunque, il lavoratore può produrre tali documenti a corredo d’un esposto o di una denuncia penale, dovendo precostituirsi la dimostrazione di aver agito con cognizione di causa per evitare rischi di incriminazione per calunnia, a tal fine potendo non rivelarsi sufficiente la mera indicazione all’A.G. dell’esistenza dei documenti medesimi affinché provveda ad acquisirli (nel frattempo potrebbero venire distrutti od occultati)». In tal modo replicando, indirettamente, a quell’antecedente orientamento di minoranza che considerava scorretta (quindi sanzionabile) l’allegazione di documentazione aziendale probante, quando il lavoratore poteva giovarsi dell’alternativa di richiedere al Giudice di ordinare al datore l’esibizione giudiziale, ex art. 210 c.p.c., dei documenti indicatigli dal lavoratore stesso.
Le statuizioni sopra riferite costituiscono, oramai, orientamento consolidato.
4. (segue)…e in ordine alla produzione di registrazioni
Rispetto alla produzione in giudizio di documentazione aziendale cartacea di natura riservata, quella concretizzata dalle registrazioni fonografiche e audiovisive è, intuitivamente, più recente, in dipendenza dalla strumentazione tecnologica (cellulari e mini registratori) comparsa sul mercato solo negli ultimi decenni.
Risulta essersene occupata, la giurisprudenza nelle seguenti (non esaustive) decisioni: Cass. n. 21612 del 20 settembre 2013, Cass. n. 16629 dell’8 agosto 2016, Cass. n. 11322 del 10 maggio 2018, Cass. n. 12534 del 10 maggio 2019, Cass. n. 33809 del 12 novembre 2021, Cass. n. 28398 del 29 settembre 2022, oltreché, in sede di merito, di recente Trib. Cassino del 18 luglio 2022.
La legittimazione alla produzione in giudizio da parte del lavoratore di registrazioni fonografiche e audiovisive, viene dibattuta funditus e confermata da parte di Cass. n. 11322/2018, in termini più articolati e con una incisività che ci è apparsa maggiore di quella che abbiamo potuto riscontrare in altre sentenze, anche più recenti (quali sopraindicate), atteso che in quest’ultime, pur apprezzabilissime, si ritrova, a fini di legittimazione, la replica degli stessi principi di diritto asseriti da parte della stessa Cass. n. 11322/2018 e precedenti conformi; ragione per la quale, di essa forniamo una più ampia illustrazione, qui di seguito.
La decisione della Suprema corte n. 11322/2018 si è occupata del caso di un dipendente licenziato per avere – in sede di giustificazioni orali in merito ad altra precedente contestazione della società – consegnato al rappresentante aziendale una chiavetta USB (a scopi difensivi e illustrativi del contesto socio-ambientale in cui operava), contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi, oltreché per aver provveduto ad ulteriori registrazioni anche video, come riportato in sede di segnalazione all’azienda da parte di colleghi di lavoro che avevano riferito di averlo visto continuamente scattare foto, girare video, registrare conversazioni sul posto di lavoro senza alcuna autorizzazione da parte loro, il tutto in asserita violazione della legge sulla privacy e con la recidiva rispetto ad altre precedenti contestazioni.
La Cassazione, una volta accertato che il lavoratore non aveva in alcun modo utilizzato o reso pubblico il contenuto di quelle registrazioni per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto, affermava che era da escludersi la configurabilità, nella vicenda, di ogni rilevanza penale e che sussisteva l’ipotesi derogatoria ex art. 24, co.1, lett. f) d.lgs. n. 196/2003, rispetto alla necessità di acquisire il “consenso” dei soggetti privati interessati dalle registrazioni, in ragione delle finalità del lavoratore di documentare le problematiche esistenti sul posto di lavoro e di salvaguardare la propria posizione di fronte a contestazioni dell’azienda dallo stesso ritenute “non proprio cristalline”.
La Cassazione illustrava, poi, come il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell’interessato, può essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se, come prevede l’art. 24, co. 1, lettera f), d. lgs. n. 196/2003, è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Affermando, poi, che nella fattispecie, si era in presenza, della previsione legislativa di una deroga che rende la produzione in giudizio della raccolta dei dati – se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste – di per sé del tutto lecita.
In tale ipotesi – e dunque laddove il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi tale trattamento effettua e, pertanto, sia finalizzato all’esercizio delle prerogative di difesa – è altresì del tutto insussistente anche il presupposto delle condotte incriminatrici previste dall’art. 167, co. 1, del d.lgs. n. 196/2003.
Ancora la Cassazione riferiva che: «La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisca “deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito” (Cass., Sez. U., 8 febbraio 2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e, pertanto, di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente lavoristico è stato ulteriormente precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale. Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424 ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22 aprile 2010, n. 9526 ed a Cass. 14 novembre 2008, n. 27157), alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo. E’ stato, altresì, chiarito che l’ipotesi derogatoria di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 196/2003, che permette di prescindere dal consenso dell’interessato, sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11 luglio 2013, n. 17204 e Cass. 1° agosto 2013, n. 18443)».
Pertanto, nella fattispecie in esame, una volta riscontrato che il dipendente aveva adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all’insaputa dei soggetti coinvolti, è stata considerata operante la deroga relativa all’ipotesi per cui il consenso non era necessario che fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Talché è risultato confermato che la condotta era stata posta in essere dal dipendente “per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline” e per precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione, ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui. Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il lavoratore in questione ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari, in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili “sacche di omertà”, come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria.
Ed allora, si trattava di una condotta legittima – afferma la Suprema corte – pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l’illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, alla stregua dell’indicata previsione derogatoria del codice della privacy.
Altro sarebbe stato – tiene a precisare la Corte, per necessaria chiarezza – «se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il senso della contestazione disciplinare per cui è causa che, per quanto si rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato nella sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la ‘gravissima’ ed ‘intollerabile’ violazione della legge sulla privacy ‘comportante l’ipotesi del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione da 6 a 24 mesi».
5. Conclusioni
Da quanto riferito in precedenza, consegue la conclusione che deve ritenersi legittima la produzione in giudizio, da parte dei lavoratori, di fotocopie di documentazione aziendale riservata (sempreché non sottratta, ma) nella loro disponibilità, per effetto delle mansioni svolte, nonché di registrazioni fonografiche e audiovisive tra presenti nelle conversazioni, che la giurisprudenza giustifica essere legittimate ed insuscettibili di essere sanzionate disciplinarmente (ii), dovendosi altresì riconoscere, alle registrazioni audiovisive e su nastro magnetico, idoneità a costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti, mediante il cd. disconoscimento (iii), che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa;
a) in ragione della prevalenza del diritto di difesa giudiziale ex art. 24 Cost. su quello alla riservatezza aziendale desunta: 1) sia dal rango costituzionale dell’art. 24 (e dalla preminenza accordata, da parte della giurisprudenza di legittimità, al diritto di difesa giudiziale sul diritto alla riservatezza), 2) sia da riferimenti storici in ordine alla riforma del segreto d’ufficio (ipotizzato sacrificabile in caso di difesa personale in giudizio), 3) sia dal diritto (rinvenibile nell’art. 10, co 1, lett. f) d. lgs. n. 196/2003, cd. Codice privacy) al trattamento dei dati personali svincolato dalla necessità del consenso dell’interessato, quando l’uso degli stessi sia necessario «per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria …», beneficiando altresì della scriminante di cui all’art. 51 c.p.;
b) in ragione dell’insussistenza di un asserito pregiudizio per il datore, dallo stesso ipotizzato conseguente alla presunta “divulgazione” dei documenti e delle registrazioni, invero non ricorrente (iv) in quanto esclusivamente destinati al solo inserimento nel fascicolo processuale gestito e consultato da soggetti (giudici e avvocati), tutti quanti tenuti processualmente al segreto d’ufficio.
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Note
i Ex plurimis, Cass. n. 2560 del 1993; Cass. n. 4328 del 1996; Cass. n. 6352 del 1998; Cass. n. 13188 del 2001.
ii Ex plurimis, Cass. 16 luglio 2012, n. 12119 e Cass. 16 novembre 2012, n. 20163.
iii Così. Cass. 29/9/2022, n. 28398, la quale precisa, altresì, che «il disconoscimento di veridicità, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta (Cass. n. 1250 del 2018; n. 5259 del 2017; n. 27424 del 2014).
iv Poiché – asseriscono Cass. n. 3038 del 2011 e Cass. 16629 dell’8 agosto 2016 – «l’applicazione corretta della normativa processuale in materia. è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale».