Sì al licenziamento del dipendente omofobo.
Legittimo il licenziamento per giusta causa per avere, il dipendente, rivolto un appellativo omofobo ad una collega e ciò in quanto la condotta posta in essere rappresenta una discriminazione basata sull’orientamento sessuale.
Giovedi 23 Marzo 2023 |
Questo il principio espresso dalla Suprema Corte, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 7029 del 9 marzo 2023, con la quale ha cassato con rinvio la decisione resa tra le parti dalla Corte d’appello.
Nel caso di specie, un lavoratore di una società di trasporti era stato licenziato dall’azienda per aver pronunciato frasi sconvenienti ed offensive nei confronti di una collega, deridendone l’orientamento sessuale. Licenziamento intervenuto a seguito dell’esposto presentato dalla donna, a seguito del quale la Società aveva evidenziato che i fatti, così come denunciati, comportavano inevitabilmente la risoluzione del rapporto di lavoro, sia in relazione alla normativa generale sia in relazione all’art. 45 r.d. n. 148 del 1931 che, al punto 6, prevede la destituzione di “ chi per azioni disonorevoli o immorali, ancorchè non costituiscono reato o trattasi di cosa estranea al servizio, si renda indegno della pubblica stima”.
La Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro con la società condannando quest’ultima al pagamento di un importo pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori. Relegava, tuttavia, l’episodio ad una condotta “sostanzialmente inurbana”dovuta alla semplice ingerenza del lavoratore nella sfera sessuale della donna (seppure il primo, in presenza di altri lavoratori, avesse pronunciato frasi sconvenienti qualificabili, incontrovertibilmente, come un vero e proprio insulto omofobo: “ma perchè sei uscita incinta pure tu”?!?; “ma perchè non sei lesbica, tu”?!?;” come sei uscita incinta”? Frasi scaturite dall’aver appreso che la donna fosse madre di due gemelli).
La Cassazione non ha condiviso l’interpretazione offerta dal giudice di merito rilevando che non è conforme ai valori presenti nella società declassare come semplice comportamento inurbano la condotta del lavoratore trattandosi, invece, di una condotta contraria tanto alle ordinarie regole della buona educazione quanto alle forme del vivere civile.
Comportamento, per gli ermellini, in spregio ai valori più pregnanti, ormai radicati nella coscienza comune come espressioni di principi generali dell’ordinamento:“ costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni l’acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona”.
Non si tratta di semplici regole di buona educazione ma dell’osservanza di principi di rango costituzionale: la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo ( art. 2) senza distinzioni di sesso; la tutela dello sviluppo della persona umana ( art. 3); il lavoro come forma di esplicazione della personalità dell’individuo ( art. 4) da tutelare in tutte le sue forme ed applicazioni. Questo impianto generale ha trovato ulteriore specificazione, nell’ordinamento, attraverso la previsione di discipline antidiscriminatorie volte ad impedire o a reprimere tutte le forme di discriminazione legate al sesso. Particolare rilevanza assume l’art. 26, al primo comma, del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, il quale stabilisce che “sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
Vengono, cioè, individuati quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso o a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo di violare la dignità del lavoratore.
Per quanto non citati in sentenza, va ricordato che il Codice delle pari opportunità sanziona espressamente colui che: vìola il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e nelle condizioni di lavoro (art. 27); vìola il divieto di discriminazione retributiva ( art. 28); vìola il divieto di discriminazione nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera ( art. 29) ed anche all’accesso alle prestazioni previdenziali (art. 30).
In conclusione, per i motivi sopra esposti, la Cassazione ha rinviato alla Corte d’appello in diversa composizione, con invito a confermare la misura del licenziamento.