Il licenziamento per scarso rendimento
1. Premessa
Com’è oramai ampiamente risaputo, il licenziamento del lavoratore può essere disposto:
a) per cd. “giusta causa” ex art. 2119 c.c. (cd. licenziamento in tronco, senza preavviso) – cioè per una causa “che non consente la prosecuzione, anche, provvisoria del rapporto” in ragione di un comportamento inadempiente del lavoratore, idoneo a pregiudicare irreparabilmente il rapporto fiduciario con l’azienda datrice di lavoro; ovvero:
b) per “giustificato motivo soggettivo” con preavviso, ex art. 3, l. n. 604/1996 (“per notevole inadempimento agli obblighi contrattuali“, in ragione di un comportamento inadempiente del prestatore di lavoro meno grave di quello occasionante l’espulsione per giusta causa); ovvero:
c) per “giustificato motivo oggettivo” con preavviso, sempre ex art. 3, l. n.604 del 1966 (dipendente “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”).
Il comportamento negligente del lavoratore nel disimpegno del lavoro, idoneo a concretizzare lo “scarso rendimento”, è stato ricondotto, in prevalenza, nell’alveo del “giustificato motivo soggettivo”, cioè sanzionabile sotto il profilo disciplinare (implicante, pertanto, tutte le garanzie procedurali al riguardo, fissate dall’art. 7, l. n. 300/70: contestazione scritta, audizione a difesa, eventualmente con l’assistenza sindacale, ecc.). Va anche detto, peraltro, che talora le aziende – onde liberarsi da vincoli procedurali e probatori più incisivi – ne hanno tentata la riconduzione nell’ambito del “giustificato motivo oggettivo”, adducendo il pregiudizio alla normale attività produttiva, all’organizzazione del lavoro in azienda e al regolare funzionamento di essa.
2. L’inquadramento nella fattispecie del “giustificato motivo soggettivo” da parte della giurisprudenza
Sebbene non siano mancate decisioni che, in ipotesi del tutto particolari, hanno ritenuto praticabile la riconduzione di un licenziamento per “scarso rendimento” sotto la fattispecie del “giustificato motivo oggettivo” – qualora il comportamento negligente del lavoratore avesse altresì determinato concreti e rilevanti pregiudizi all’ordinaria produttività e al regolare funzionamento della struttura o nucleo aziendale di appartenenza -, la prevalente e più recente giurisprudenza è giunta a riconfermare la riconduzione del licenziamento per “scarso rendimento” entro l’ambito disciplinare di cui al “giustificato motivo soggettivo”, considerando cioè il licenziamento una diretta conseguenza del riscontrato “notevole inadempimento agli obblighi contrattuali“.
Effettuato tale, più convincente, inquadramento, la Cassazione si è preoccupata, al tempo stesso, di specificare le condizioni necessarie per la ricorrenza del cd. “scarso rendimento”, le cui caratteristiche, in termini di gravità e volontarietà del comportamento negligente, sarebbero idonee a legittimare la massima sanzione espulsiva dall’azienda, normalmente dopo il riscontro di indifferenza del lavoratore ai reiterati richiami e alle più lievi sanzioni disciplinari. Peraltro anche se il licenziamento, di norma, consegue in presenza di una mancata resipiscenza del dipendente a pregressi richiami da parte aziendale, l’eventuale omissione dei suddetti richiami da parte datoriale non pregiudica affatto l’irrogazione del provvedimento estintivo del rapporto – come ha precisato la giurisprudenza – atteso che la ricorrenza di pregressi richiami ha solo l’effetto di rafforzare, a beneficio del datore di lavoro, la prova della quale è onerato: quella di meglio dimostrare, tramite l’indifferenza del lavoratore ai richiami, le caratteristiche di colpevole negligenza del lavoratore, protratte nel tempo, incuranti delle segnalazioni indirizzategli dai superiori (cfr. Cass., 1 dicembre 2010, n. 24361).
Taluni commenti alle statuizioni della Suprema corte – nei quali ci siamo imbattuti – hanno qualificato le rigide condizioni o presupposti, per lo spiegamento del suddetto licenziamento, quali “paletti” ostativi all’attivazione dei provvedimenti sanzionatori dello “scarso rendimento”, aventi, di fatto, l’effetto «di confinare la possibilità di licenziare per scarso rendimento solo a casi clamorosi (cioè, solo alle ipotesi in cui ci sia una “enorme sproporzione” tra obiettivi e risultati)». Concludendo che «non è detto che sia una buona notizia, se si vuole rimettere la produttività al centro delle politiche del lavoro».
I cd. “paletti” sono identificabili e desumibili dal costante principio di diritto – reperibile in tutte le decisioni della Cassazione che si sono occupate del tema in questione – così espresso: «Nel contratto di lavoro subordinato, (…), il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma alla messa a disposizione del datore delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, giacché si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera o un servizio (lavoro autonomo). Ove, tuttavia, siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione (Cass. 20 agosto 1991, n. 8973)».
In buona sostanza la Cassazione asserisce che si può invocare lo “scarso rendimento” solo quando l’azienda abbia posto in essere un sistema di rilevazione della produttività media esigibile dai dipendenti, talché sia possibile al datore di lavoro (intenzionato a licenziare il lavoratore valutato “pigro e che non rende”) dimostrare – in raffronto con la produttività media degli altri colleghi – che quest’ultimo si è posizionato al di sotto della media produttività conseguita dai suoi colleghi di lavoro, in un arco temporale almeno annuale o quantomeno di consistente durata.
Sarà possibile, pertanto, il licenziamento per “scarso rendimento”, solo se l’azienda riesce a dimostrare quale sia il livello medio di efficienza raggiunto in azienda dagli altri colleghi, così da poter ritenere, in maniera giustificata, la prestazione del dipendente licenziabile sotto gli standard minimi.
Il ragionamento della Cassazione si articola sulla considerazione, di buon senso comune, per cui, per considerare, con fondamento ed in maniera oggettivamente imparziale, “scarsa” una determinata prestazione lavorativa, lo si deve fare avendo come riferimento un termine di paragone. Qualora il termine di paragone manchi o non venga dimostrato, l’azienda non può, unilateralmente, qualificare come “di qualità insufficiente” la prestazione del dipendente.
Ma per pretendere l’espulsione aziendale al suddetto titolo, la Cassazione introduce – addizionalmente a quelli innanzi indicati – altri vincoli per l’azienda, volti ad evitare che l’irrogazione del provvedimento sia ispirato dalla sola discrezionalità datoriale. A tal fine, asserendo che l’azienda, in caso di contestazione giudiziale del provvedimento da parte del licenziato, deve:
a) dimostrare che lo scadente rendimento non dipenda da difficoltà indotte dall’organizzazione e/o da carenze della struttura aziendale;
b) che l’addotta inefficienza del lavoratore sia dipendente da comportamento volontario e colpevole dello stesso, non già da situazioni involontarie (quali le assenze per malattia e simili che, del tutto correttamente, Cass. n. 16472 del 5 agosto 2015 ha ritenuto inutilizzabili per la configurazione del cd. “scarso rendimento”).
3. Le sentenze di fine secolo scorso e d’inizio del 2000
Le prime enunciazioni sul tema risalgono agli ultimi decenni del secolo scorso e l’orientamento si trova, ora, riconfermato nelle più recenti decisioni emesse dal 2014 a tutt’oggi dalla Suprema corte, tra cui la recentissima Cass. n. 9453 del 6 aprile 2023 che ha così statuito: «il licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli artt. 1453 e segg. cod. civ, sicché, fermo restando che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da essi può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un apprezzabile periodo di tempo (così Cass. civ., sez. lav., 9.7.2015, n. 14310). In senso conforme, ex multis, Cass. 1 dicembre 2010, n. 24361 che si era così espressa: «Il datore di lavoro è legittimato a licenziare un proprio dipendente per scarso rendimento qualora, sulla base della valutazione complessiva dell’attività lavorativa svolta dal lavoratore, venga provata una violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, così come pure è legittimo il licenziamento per scarso rendimento nel caso in cui il lavoratore manifesti un atteggiamento negligente protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei suoi superiori».
Pertanto Il datore di lavoro dovrà (o potrà) dimostrare l’inadempimento del dipendente (anche) mediante la comparazione tra i risultati produttivi dello stesso dipendente con il rendimento medio dei suoi colleghi. In tale prospettiva, affinché si configuri l’inadempimento per scarso rendimento, è necessario che tra i risultati del lavoratore e quelli degli altri colleghi vi sia una “enorme sproporzione”, cioè uno scarto molto significativo, che dimostri in modo oggettivo ed inequivocabile la mancanza di diligenza.
Dunque, per scarso rendimento, si deve intendere – per la Cassazione – la «evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente ed a lui imputabile in conseguenza dell’enorme sproporzione fra gli obbiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione». Ed ancora, la Cassazione prosegue asserendo: «In relazione al cosiddetto scarso rendimento, il datore di lavoro che intenda farlo valere quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell’articolo 3 legge 604/66, non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, ma è onerato dalla dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l’apprezzamento degli aspetti concreti. A parere della Corte, principi non meno rigorosi devono presiedere alla valutazione dello scarso rendimento, qualora si intenda attribuire ad esso rilevanza ai fini di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Può essere riconosciuta tale rilevanza solo ove cagioni la perdita totale dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione, all’esito di un’indagine condotta alla stregua di tutte le circostanze della fattispecie concreta, compreso il comportamento del datore di lavoro, per accertare se il medesimo, obbligato non solo al pagamento della retribuzione ma anche a predisporre i mezzi per l’esplicazione dell’attività lavorativa, si sia o meno attivato per prevenire o rimuovere situazioni ostative allo svolgimento della prestazione lavorativa (cfr. Cass.., 3 maggio 2003, n. 6747)».
In sede di merito, peraltro e prevalentemente, non si può sottacere dall’esserci imbattuti in talune opinioni lumeggianti un eccesso di favor lavoratoris, affermandosi che: «Nel caso di licenziamento per scarso rendimento il datore di lavoro deve dimostrare non solo il mancato raggiungimento degli obiettivi e l’esigibilità della prestazione attesa, ma anche la concreta e immotivata negligenza del lavoratore nell’adempimento dell’obbligazione lavorativa, con la conseguenza che, in assenza della prova della negligenza, si presume che l’inadeguatezza della prestazione fornita dipenda da fattori socio-ambientali oppure dall’incidenza dell’organizzazione dell’impresa e, comunque, da fattori non dipendenti dalla volontà del lavoratore» ( così, Pret. Voghera, 26 febbraio 1999).
Opinione, peraltro, condivisa da Cass., 5 marzo 2003, n. 3250, secondo cui: «Il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale, o d’uso, non integra ex se l’inesatto adempimento che, a norma dell’articolo 1218 c.c., si presume, fino a prova contraria, imputabile a colpa del debitore, dato che, nonostante la previsione di minimi quantitativi, il lavoratore è obbligato a un facere e non ad un risultato, e l’inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell’impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore.
Ai fini del licenziamento il datore non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, ma è onerato dalla dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l’apprezzamento degli aspetti concreti».
4. L’orientamento innanzi delineato, confermato dalle più recenti decisioni della Cassazione
Tra le più recenti decisioni di legittimità, oltre alla precitata Cass. n. 9453 del 6 aprile 2023 – che ha legittimato il licenziamento di un dipendente addetto all’Ufficio Sviluppo di una banca, incaricato della visita ed acquisizione di clientela esterna, per riscontro di scarso rendimento desunto in comparazione con le acquisizioni e le visite effettuate dai colleghi dello stesso Ufficio – si pone, altresì, la sentenza 19 settembre 2016, n. 18317 della Cassazione che, a differenza della precedente, ha invalidato il licenziamento, per insufficiente dimostrazione dello “scarso rendimento”, da parte datoriale, disposto nei confronti di un direttore di filiale. Nella motivazione, quest’ultima sentenza ha ribadito l’orientamento prevalente, così esprimendosi: «Nel licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro, a cui spetta l’onere della prova, non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione. Nella valutazione delle relative risultanze probatorie dovrà tenersi conto, alla stregua di un bilanciamento dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 4 e 41 Cost., del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché dell’incidenza della organizzazione complessiva del lavoro nell’impresa e dei fattori socio-ambientali (Cass. n. 13194/03; Cass. n. 15351/04; Cass. n. 20054/09)».
Condividendo altresì le statuizioni precedenti, fatte proprie per l’occasione, Cass. n. 18317/2016 ha statuito, poi, che: «È legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cass. n. 3876/06; Cass. n. 1632/09; Cass. n. 18678/14)».
Nell’invalidare il licenziamento e disporre la reintegrazione del licenziato – sempre Cass. n. 18317/2016 – rivolgendosi all’azienda, ha così concluso: «nella specie, la Corte di merito ha rilevato che la società ricorrente, disattendendo ogni onere probatorio sulla stessa gravante, ha del tutto omesso di specificare quale fosse lo standard produttivo inizialmente concordato con il dipendente; non ha documentato o provato quale fosse il grado di efficienza dei colleghi dello stesso; non ha dimostrato che l’asserita contrazione delle vendite fosse in alcun modo imputabile alla dedotta grave inottemperanza degli obblighi contrattuali da parte del predetto lavoratore».
Infine, anche dalla piuttosto recente Cass. n. 7522 del 23 marzo 2017 (relativa ad un autista di azienda, il cui licenziamento è stato, poi, invalidato), sono state ribadite le condizioni per legittimare il cd. “licenziamento per scarso rendimento”, che taluni commentatori dissenzienti dall’orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, hanno qualificato con l’aggettivo “incondivisibile“, mentre altri hanno espresso giudizi del seguente tenore: «con l’affermazione di questi principi – non nuovi nel panorama giurisprudenziale – la Corte di Cassazione conferma la tradizionale avversità del nostro ordinamento all’utilizzo della produttività individuale come motivo di licenziamento».
In sintesi e con orientamento oramai consolidato, le condizioni o presupposti per un valido licenziamento, ascrivibile a “scarso rendimento”, sono state individuate al ricorrere delle seguenti dimostrazioni, incombenti sul datore di lavoro:
– che il rendimento del lavoratore sia risultato inferiore alla media (quale risultante dal raffronto con il grado di efficienza “media” raggiunto dai colleghi del licenziato nonché dello standard produttivo eventualmente concordato con il dipendente, all’atto dell’assunzione);
– che lo scarso rendimento sia stato di “notevole importanza” e riscontrato in un arco temporale di consistente durata, tale da far atteggiare come “persistente” il comportamento negligente inferiore allo standard medio dei colleghi;
– che la contrazione di rendimento del lavoratore sia stata determinata da colpevole negligenza del medesimo (insussistente qualora, impropriamente, venisse fatta derivare anche da assenze per malattia ovvero qualora il lavoratore non sia stato messo dall’azienda nelle condizioni, fisiche e organizzative, di lavorare in modo proficuo);
– che lo scarso rendimento abbia determinato, infine, ricadute negative sulla produzione.
La Cassazione (n. 7522/2017, e, in senso conforme, nn. 16472/2015 e 17436/2015) ha, inoltre, precisato – richiamandosi implicitamente al principio, ex art. 7 Statuto dei lavoratori, del mancato utilizzo delle pregresse sanzioni disciplinari decorsi 2 anni dalla loro inflizione – che lo “scarso rendimento” non può essere dimostrato dai precedenti disciplinari del lavoratore antecedenti di 2 anni al disposto licenziamento, atteso che ciò costituirebbe «un’indiretta duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite». A supporto è stato detto, in maniera colorita, da un commentatore, che: «sarebbe come sanzionare due volte lo stesso comportamento. Dunque, se già in passato il dipendente è stato bacchettato e punito per non aver prodotto a sufficienza e aver “dormito sulla sedia”, questi fatti non possono essere disseppelliti di nuovo in futuro. Come dire che il datore non può giustificarsi sostenendo che il licenziamento è stato determinato dalla “goccia che ha fatto traboccare il vaso”».
5. Concisa casistica del licenziamento per scarso rendimento, ritenuto legittimo
Peraltro i principi di diritto sopra delineati, non hanno impedito alla Cassazione – a conferma dell’immanente imparzialità della magistratura di legittimità e di merito – di avallare licenziamenti per “scarso rendimento” (e non solo), determinati dal riscontro di comportamenti censurabili di qualche lavoratore, come testimonia, non solo la recentissima Cass. n. 9453 del 6 aprile 2023, già riferita in precedenza, ma anche Cass. n. 14310 del 9 luglio 2015, tramite cui la Suprema corte ha condiviso la decisione della corte d’appello di Torino che, nell’esaminare gli addebiti mossi dall’azienda al lavoratore, aveva ravvisato sussistere effettivamente «una totale sproporzione tra l’attività lavorativa del ricorrente rispetto a quella dei suoi colleghi, anche di inquadramento inferiore e di minore anzianità». La corte territoriale – preso in considerazione il periodo di riferimento (dal 26 al 31 gennaio 2009 e dal 9 al 13 marzo 2009), era giunta a concludere che «gran parte delle caselle corrispondenti alle varie tipologie di attività (gestione delle negoziazione, gestione dei contratti, incontro con i fornitori, incontro con i clienti interni, gestione listini, attività per stage gates) risultano desolatamente vuote»; con riferimento, poi, ad attività di minor qualità professionali, come la gestione operativa degli ordini, aveva rilevato come la produttività fosse risultata del tutto insoddisfacente («due e quattro ordini nelle due settimane considerate»), a fronte di una media degli altri buyers di più di 40 al giorno e di più di 200 alla settimana. Ha, quindi, ritenuto «prive di consistenza» le giustificazioni addotte dal lavoratore, oltre che sotto certi aspetti contraddittorie, giungendo alla conclusione che «il giudizio di gravità dell’inadempimento e di proporzionalità della sanzione era stato, pertanto, compiutamente condotto dalla corte d’appello ed esso era privo di incongruenze».
Analoga condivisione del licenziamento disposto dal datore di lavoro, è stata effettuata da Cass. n. 18678 del 2014 che ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per “scarso rendimento”, una volta provata – dietro valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro – una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, a lui imputabile. Inefficienza e scarso rendimento, riscontrato per effetto dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato dallo stesso, nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività ed efficienza tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.
Ne è uscita confermata la sentenza della Corte d’appello, che aveva affermato la legittimità del licenziamento intimato, sul presupposto che le reiterate assenze effettuate dal lavoratore, comunicate all’ultimo momento ed “agganciate”(furbescamente, ndr) ai giorni di riposo, determinavano uno “scarso rendimento” ed una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale e sull’organizzazione dei turni del personale.