Aspetti controversi del diritto di critica sindacale, ai tempi dei social networks
1) L’affermarsi, per effetto del progresso tecnologico, di nuove forme di comunicazione (anche per dibattere questioni di lavoro) – alternative o aggiuntive a quelle tradizionali dello scritto su comunicati cartacei destinati all’affissione in bacheca o al volantinaggio tra i lavoratori – dispiegabili in forma vocale e/o scritta mediante ricorso ai cd. social (quali Facebook, Whatsapp, Chat e similari), ha determinato l’involontario coinvolgimento della stessa magistratura, impegnandola nel compito istituzionale di dirimere controversie, anche di lavoro, occasionate dalla manifestazione di opinioni critiche da parte di dipendenti aziendali, esternate tramite l’utilizzo dei predetti social networks.
Al fine di decidere, con appropriata e convincente motivazione, se erano rigettabili alcuni ricorsi ad essa sottoposti da lavoratori (con ruolo sindacale), licenziati per l’asserito contenuto offensivo e diffamatorio delle loro esternazioni critiche nei confronti dei gestori aziendali – come sostenuto da parte datoriale – ovvero erano meritevoli di accoglimento per la riconducibilità delle loro opinioni (talora espresse in forma rude e cruda), all’esercizio legittimo del diritto di critica (protetto dall’art. 21 Cost. e 1 dello Statuto dei lavoratori).
Tra i più recenti approdi della Cassazione sul tema, si registra la fattispecie decisa da Cass., sez. lav., n. 35922 del 22 dicembre 2023, occasionata dalla pubblicazione, nel 2015, di uno di uno “sfogo” verbale – da parte di un rappresentante sindacale della Filt-Cgil effettuato sul profilo personale “aperto” del social Facebook – espresso nei seguenti termini: «Si informano tutti i gentili colleghi dell’Azienda FU. che, qualora si voglia aderire e iscriversi alla Filt Cgil perché trattati come stracci, siatene convinti e non che alle prime minacce o false promesse vi tirate indietro, qui nessuno ha tempo da perdere, se li avete gli attributi metteteli fuori, in caso contrario allacciate bene la cintura». Aggiungendo, pochi giorni dopo, quanto segue:«1.Il vecchio oggi di prima mattina va a caccia dei suoi autisti che si sono iscritti al sindacato per fargli le solite minacce o false promesse. Ma che ci sarà mai, sotto tutto ciò? Come mai questi hanno tutta questa fottuta paura che la gente si iscrive? Sarà che la Cgil non si fa corrompere come qualcun altro? Provate a farvele queste domande e se siete in grado di trovare la risposta gentilmente ditela anche a me che sono curioso. 2. Io personalmente l’unica risposta che mi riesco a dare è che hanno qualcosa da nascondere e non sono puliti in ciò che fanno, altrimenti non ci sarebbe motivo di tutto ciò, paura che tutta la merda viene a galla? Mi sa che il coperchio ormai è stato tolto. 3. Sto’ vecchio di merda sempre a rompere i coglioni alla gente sta il sabato mattina, ma andasse a fare un giro in montagna, chissà che se la fa tutta rotolando. PS. State attenti, dice di avere il pisello duro e vuole rompere culi».
In conseguenza di tali affermazioni, a dir poco scurrili, l’azienda procedeva al licenziamento per vulnerazione del rapporto fiduciario.
La Corte d’appello di Bari, in veste di giudice territoriale di 2 grado, giudicava le affermazioni…«destituite di fondamento e del tutto gratuite, tali da superare ampiamente i limiti anche della più colorita manifestazione della critica e costituenti evidente contumelia, ingiuria, diffamazione, rappresentando l’idea di un clima torbido, all’interno dell’azienda di cui fa parte (nonché di altra ad essa collegata), di presunta avversione al sindacato al quale è iscritto, caratterizzato addirittura da minacce, pressioni, intrighi e violenze. Gli strali delle sue arbitrarie accuse, intrise di accenti particolarmente volgari, colpiscono anche una persona definita “il vecchio” ed in un altro post “Pierino”, inducendo l’agevole suggestione che si riferisca al sig. PI. CO., fondatore delle aziende del gruppo, padre dell’amministratore della “PI. CO. & Figli”, presso cui lavora».
I giudici della Corte d’appello hanno fondato la decisione sulle dichiarazioni rese dal medesimo lavoratore (nel corso dell’interrogatorio formale in udienza) ed hanno inteso tali dichiarazioni come ammissive, non solo della paternità dei “post” pubblicati, ma anche della diffusività di quei post, cioè dell’essere gli stessi, per il carattere “aperto” del profilo Facebook, visibili da un numero indeterminato di persone, vale a dire dalla generalità degli utenti di Facebook. I giudici hanno, inoltre, valorizzato la produzione documentale della società, relativa a screen shots dalla stessa liberamente tratti dal profilo aperto di Facebook del lavoratore in epoca successiva ai fatti di causa.
In merito alla questione del carattere “chiuso” oppure “aperto” del profilo Facebook all’epoca dei fatti – distinzione essenziale a fini decisori – si rinvia al successivo paragrafo 3) del presente scritto, ove trattata più in dettaglio.
Proseguendo nella trattazione della fattispecie, si fa presente che la Corte di merito, in sede di appello, una volta appurata la generale visibilità e diffusività dei messaggi “postati” su Facebook, ha confermato il carattere diffamatorio della condotta addebitata al lavoratore, il travalicamento dei limiti di continenza verbale e l’insussistenza dei presupposti della scriminante dell’esercizio del diritto di critica nell’ambito delle relazioni sindacali.
La Corte di Cassazione, da parte sua, condivideva pienamente le motivazioni della Corte d’appello, la quale aveva «escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore. Tale accertamento esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso».
Quindi la Suprema corte respingeva il ricorso del licenziato, dopo aver richiamato i principi già espressi in precedenti decisioni, secondo cui:
a) «sull’esercizio del diritto di critica, si è riconosciuto, in linea generale, come al lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro […] ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale (così, Cass. n. 19350 del 2003)»;
b) «con particolare riferimento alla posizione del lavoratore – sindacalista questa Corte, con indirizzo costante, ha affermato che, sebbene garantito dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, il diritto di critica “incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.) di tutela della persona umana, (con la conseguenza) che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore possa essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (così, Cass. n. 19350 del 2003; Cass. n. 7471 del 2012; Cass. n. 18176 del 2018)»;
c) «tali limiti al diritto di critica del lavoratore, che sia anche rappresentante sindacale, sono stati ribaditi rilevando come “il lavoratore, che sia anche rappresentante sindacale, ha distinti rapporti con il datore di lavoro. Quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti; in relazione alla attività di rappresentante sindacale si pone su piano paritetico con il datore di lavoro che esclude che sia proponibile un qualsiasi vincolo di subordinazione. La sua attività infatti è espressione di una libertà garantita dalla Costituzione, art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo. Consegue che la contestazione dell’autorità e della supremazia del datore di lavoro siccome caratteristica della dialettica sindacale, ove posta in essere dal lavoratore sindacalista e sempreché inerisca all’attività di patronato sindacale, non può essere sanzionata disciplinarmente” (così, Cass. n. 18176 del 2018; n. 7471 del 2012; n. 19350 del 2003; n. 7091 del 2001; n. 11436 del 1995)».
2) Il caso deciso dalla Corte d’appello di Brescia n.281 del 3 novembre 2022
Diverso del precedente, il caso deciso dalla Corte d’appello di Brescia, la quale ha dichiarato, invece, illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che aveva criticato sui “social networks” la gestione aziendale senza tuttavia, ad avviso dei giudici, travalicare i limiti della continenza sostanziale (veridicità dei fatti) e formale (correttezza espositiva) e della pertinenza (esercizio critico a tutela di un interesse meritevole).
La lavoratrice – che ricopriva anche la carica di rappresentante sindacale aziendale – riceveva tre lettere di contestazione disciplinare. Per mezzo della prima lettera (del 15 giugno 2020), la società contestava alla dipendente di avere compilato la richiesta di ferie dichiarando falsamente di aver già ottenuto l’autorizzazione dell’amministratore. Con la seconda lettera (del 23 giugno 2020), la società contestava alla dipendente di aver criticato, su un gruppo chiuso del social network Facebook, la gestione aziendale, mediante le seguenti frasi: «prendono la scusa del Covid per mascherare una gestione a dir poco disastrosa vista l’incapacità gestionale dei nostri imprenditori” o ancora “hanno cambiato vestito … ma hanno tenuto le stesse mutande». Tali commenti espressi dalla lavoratrice si collocavano nell’ambito di una complicata situazione aziendale creatasi a seguito della cessione di alcuni punti vendita. Agli addebiti la società disponeva il provvedimento della sospensione della lavoratrice che, in replica, pubblicava sul medesimo gruppo di Facebook frasi del tipo «siamo in dittatura».
Tale comportamento costringeva la società a procedere con una terza lettera di contestazione (del 2 luglio 2020) e, da ultimo, con il licenziamento per “giusta causa” della dipendente.
Al riguardo conviene precisare al lettore che, solo alla ricorrenza congiunta di questi tre innanzi precisati requisiti, un consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale accorda riconoscimento di legittimità al cd. diritto di critica, altrimenti precluso.
Ove per “continenza sostanziale” si intende la veridicità della notizia o dell’addebito, pur valutata secondo il parametro soggettivo della verità percepita dall’autore dei fatti denunciati; per “continenza formale” s’intende il ricorso ad una esposizione dei fatti contestati o dei giudizi espressi, in modo misurato, pacato e civile; e, qualora esposti con toni forti e sferzanti, questi non risultino meramente gratuiti ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere (cfr. Cass. pen. n. 32027 del 23/03/2018); per “pertinenza” s’intende la rispondenza della critica ad un interesse meritevole, precisandosi opportunamente che «nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le rivendicazioni di carattere lato sensu sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti il contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità» (cfr. Cass. n. 1379/2019).
La Corte territoriale ha proceduto a verificare il riscontro (o meno) del rispetto dei tre innanzi menzionati requisiti, ritenendoli sussistenti nel caso di specie.
Ha ritenuto che le frasi scritte dalla lavoratrice su Facebook quali, ad esempio, «incapacità gestionale degli imprenditori» o «gestione a dir poco disastrosa», fossero delle mere opinioni generiche, legate a dati oggettivi riguardanti condizioni di lavoro dei dipendenti e, come tali, inidonee a travalicare il limite della “continenza sostanziale”. Aggiungendo che le espressioni utilizzate dalla dipendente non eccedevano neanche il limite della “continenza formale”, in quanto le frasi scritte sul social network non erano lesive della dignità o dell’immagine della società e/o degli amministratori, avendo carattere spersonalizzato, giacché non riferite a singoli soggetti determinati, cioè non rivolte ad hominem. Il rispetto della “continenza formale” risulterebbe assicurato dal fatto che le espressioni usate non contenevano frasi infamanti, ingiuriose o denigratorie.
I giudici di secondo grado hanno, poi, concluso che neanche l’espressione «hanno cambiato vestito … ma hanno tenuto le stesse mutande» valicava il limite della “continenza formale”, poiché tale frase, seppur colorita, era stata utilizzata con ironia e non con finalità ingiuriose o offensive nei confronti della società (o dei suoi amministratori).
Anche con riguardo al limite della “pertinenza”, la Corte ha affermato che: “non si tratta di commenti gratuiti, avulsi da una situazione concreta da ricollegarsi al lavoro e volti unicamente a prendere di mira il datore di lavoro, per sue qualità o condotte personali, con il fine di minare l’onorabilità e la reputazione”, trattandosi piuttosto di contenuti che derivano dalla delicata situazione occupazionale che si era creata a seguito del trasferimento di alcuni punti vendita. In conclusione, la Corte d’Appello di Brescia ha ritenuto che, nel caso di specie, non fossero configurabili addebiti suscettibili di rilevanza disciplinare.
3) La scriminante del diritto di critica, riposante sull’utilizzo di un social “chiuso” (cioè ristretto al gruppo dei partecipanti) in luogo che “aperto” (indistintamente a tutti), evidenziata da Cass. sez. lav., n. 21965/2018
Sulla tematica dell’esercizio del diritto di critica sindacale (e non) tramite i cd. social networks (Facebook, Whatsapp, Chat e simili) si è espressa, taluni anni fa, Cass., sez. lav., n. 21965 del 10 settembre 2018 (in FI, 2018, 12, 1, 3927). Al fine specifico di valutare la legittimità dell’asserito esercizio del diritto di critica o lo sconfinamento in comportamento diffamatorio, azionabile giudizialmente a fini risarcitori dal privato diffamato e dal datore di lavoro, altresì, a fini rescissori per “giusta causa” del rapporto intercorrente con il lavoratore che se ne sia reso autore.
La Cassazione in questione, è giunta ad operare un “distinguo” all’interno delle cd. esternazioni ingiuriose o denigratorie, a seconda se effettuate in una chat di “tipo chiuso” (intercorrente tra un gruppo ben circoscritto di partecipanti) ovvero “aperto” alla cognizione generalizzata di tutti gli utilizzatori del social network (datore di lavoro incluso).
Va premesso che, poiché al datore di lavoro è preclusa ex lege l’appropriazione cognitiva – mediante indagini intrusive dallo stesso attivate o commissionate – delle critiche ingiuriose e diffamatorie (espresse da soggetti costituenti un “gruppo chiuso”), con conseguente loro inutilizzabilità ad ogni effetto, è giocoforza dedurre che, di norma, il datore ne riceve conoscenza da parte di taluno dei membri del cd. “gruppo chiuso” che gli recapita o indirizza degli screen shots (foto immagini istantanee di quanto viene fatto comparire nello schermo di un computer, smartphone e simili), attestativi delle considerazioni ingiuriose espresse all’interno dei membri del gruppo.
Nella fattispecie decisa dalla precitata Cass. n. 21965/2018, una guardia particolare giurata – con ruolo di Rsa per il sindacato Flaica Uniti Cub – alle dipendenze di S. s.p.a., veniva licenziato per le offese da lui rivolte all’amministratore delegato, tale L., nel corso di una conversazione intervenuta tra tre partecipanti ad una chat del “gruppo Facebook” del sindacato CUB Flaica Uniti, e la cui schermata stampata, configurante i cd. screen shots – peraltro disconosciuti dall’incolpato – sarebbe pervenuta all’azienda in forma anonima.
Al riguardo, la Corte d’appello di Lecce si era espressa, in sede di merito, asserendo che il riferimento fatto nella conversazione (tra i tre partecipanti alla chat) ai metodi “schiavisti” dell’azienda, nonché le espressioni usate riguardo all’amministratore – peraltro incomplete per l’uso di puntini sospensivi (“faccia di m…” e “cogli…”) – dovessero valutarsi come «coloriture, ormai entrate nel linguaggio comune, tese a rafforzare il dissenso dai metodi del L., dovendo altrimenti concludersi che la libertà di critica e, ancora prima, di opinione, possa essere esercitata solo manifestando idee favorevoli o inoffensive o indifferenti».
Da parte sua, la sentenza di Cassazione in esame – preliminarmente all’invalidazione del disposto licenziamento e per motivatamente escludere, alla pari della Corte d’appello, la legittimità del provvedimento disciplinare espulsivo, fondato su un asserito carattere diffamatorio e denigratorio delle espressioni usate – evidenziava in maniera articolata:
– «che la lesione della reputazione, in quanto legata al contesto sociale di riferimento, presuppone e richiede la comunicazione con più persone, cioè la presa di contatto dell’autore con soggetti diversi dalla persona offesa per renderli edotti e partecipi dei fatti lesivi della reputazione di quest’ultimo;
– «che ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito privato, cioè all’interno di una cerchia di persone determinate, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse;
– «che l’art. 15 della Cost. definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, dovendosi intendere la segretezza come espressione della più ampia libertà di comunicare liberamente con soggetti predeterminati, e quindi come pretesa che soggetti diversi dai destinatari selezionati dal mittente non prendano illegittimamente conoscenza del contenuto di una comunicazione;
– «che la tutela della segretezza presuppone, oltre che la determinatezza dei destinatari e l’intento del mittente di escludere terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio, l’uso di uno strumento che denoti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione;
– «che, come ribadito dalla Corte Cost. nella sentenza n. 20 del 2017, il diritto tutelato dall’art. 15 della Cost. “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”;
– «che quindi l‘esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati;
– «che i messaggi che circolano attraverso le nuove “forme di comunicazione”, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile;
– «che tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale;
– «che l’esigenza di tutela della segretezza delle forme di comunicazione privata o chiusa preclude l’accesso di estranei al contenuto delle stesse, la rivelazione e l’utilizzabilità del contenuto medesimo, in qualsiasi forma, prevedendo l’ordinamento specifiche ipotesi delittuose di violazione della corrispondenza, rivelazione del contenuto della stessa e di accesso abusivo a sistemi informatici, (cfr. artt. 616 e 617 c.p.);
– «che, nel caso di specie, la conversazione tra gli iscritti al sindacato era da essi stessi intesa e voluta come privata e riservata, uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno (tanto che ciò è avvenuto per mano di un anonimo), il che porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria».
Ciò detto, la Cassazione concludeva per la mancanza del carattere illecito – da un punto di vista oggettivo e soggettivo – della condotta ascritta al lavoratore, riconducibile piuttosto alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente.
4. La decisione di Trib Firenze Firenze 16 ottobre 2019 (Giud. Nuvoli)
L’autorevole opinione della Cassazione è stata seguita anche in sede di merito, come documenta la decisione del Tribunale di Firenze sopra indicata
La fattispecie esaminata dalla Corte fiorentina riguardava un licenziamento disposto dall’azienda Y S.r.l. ad un lavoratore a seguito di un procedimento disciplinare instaurato con lettera del mese di luglio 2018, con la quale l’azienda contestava al dipendente di aver registrato, su una chat di whatsapp denominata “Amici di lavoro” alcuni messaggi vocali, riferiti al superiore gerarchico e ad altri colleghi, con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti, conoscibili solo dai partecipanti alla stessa.
In fattispecie il lavoratore non contestava di essere l’autore dei messaggi vocali, ma ne deduceva l’irrilevanza disciplinare in quanto gli stessi erano stati registrati in una “chat privata”, le cui comunicazioni – a suo fondato avviso – erano da ricomprendere nell’ambito di tutela dell’art. 15 Cost.
Per il caso sottopostogli all’esame, il Giudice fiorentino si è determinato a far proprie le considerazioni della giurisprudenza di legittimità – cioè di Cass. n. 10280/2018 e di Cass. 21965/2018 – le quali valutarono, a suo tempo, la fattispecie di messaggi di contenuto offensivo o diffamatorio diffusi dal dipendente tramite strumenti informatici, distinguendo, in sostanza, tra:
a) messaggi diffusi tramite strumenti potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, con accesso libero alla bacheca facebook;
b) messaggi inviati tramite strumenti (nella specie, una chat facebook privata) ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che le comunicazioni ivi inserite fossero conoscibili da soggetti diversi dai partecipanti.
Nel primo caso, sub a), Cass. 10280/2018 ha ritenuto la natura diffamatoria (configurante giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.) delle affermazioni dispregiative formulate dal lavoratore nei confronti dell’azienda datrice di lavoro, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti, al fine di una costante socializzazione;
nella seconda ipotesi, sub b), Cass. 21965/2018 ha invece escluso la sussistenza della “giusta causa” del licenziamento, rilevando che l’invio di messaggi riservati ai soli partecipanti ad una chat è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale.
Nel caso in esame, i messaggi del ricorrente erano indirizzati a una chat riservata ai soli partecipanti, e pertanto – secondo i condivisibili principi dettati da Cass. n. 21965/2018 – configuravano comunicazioni diffuse in un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno. Situazione che il Giudice è giunto a ritenere idonea ad escludere qualsiasi intento o valida modalità di diffusione denigratoria.
Ne è conseguita, da parte della sentenza, la motivata affermazione di «insussistenza del fatto addebitato, in base ai principi dettati dalla citata Cass. 21965/2018; infatti, secondo tale orientamento ermeneutico, trattandosi di messaggi vocali indirizzati a un gruppo chiuso – pur recanti affermazioni diffamatorie e discriminatorie, non erano sussumibili nella fattispecie di frasi ingiuriose, discriminatorie e minacciose indirizzate a superiori o colleghi in quanto insuscettibili di diffusione all’esterno, quindi equiparabili a corrispondenza privata, ed in quanto tali non possono configurare atti idonei a comunicare o diffondere all’esterno affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità».
5. La fattispecie decisa da Cass., sez. lav., n. 10280 del 27 aprile 2018
Diverso il caso – deciso da Cass. n. 10280 del 2018 – in cui la condotta, contestata e posta a base del licenziamento di una lavoratrice, consisteva in affermazioni pubblicate dalla stessa sulla propria bacheca virtuale di facebook, in cui lei esprimeva disprezzo per l’azienda («mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà») con irrilevanza – dice la sentenza – della specificazione del nominativo del rappresentante della stessa, essendo facilmente identificabile il destinatario.
In tale fattispecie – asserisce la sentenza di Cassazione in esame – la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” di “tipo aperto”, integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale – proprio per il mezzo utilizzato – assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti, al fine di una costante socializzazione. Ciò comporta che la determinazione di postare un commento su “facebook” di “tipo aperto”, realizza la pubblicizzazione e la diffusione del medesimo e delle relative espressioni in esso usate, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone – comunque, apprezzabile per composizione numerica – con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e, come tale, correttamente il contegno è stato valutato in termini di “giusta causa” del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.
Conseguentemente la Cassazione ha convalidato il licenziamento della lavoratrice in questione.
Da quanto sopra detto, risulta evidente come, invece, la riconduzione nell’ambito della “corrispondenza privata” delle opinioni espresse in “chat di tipo chiuso” tra lavoratori con veste sindacale e non – denigratorie o infamanti che siano – implica l’automatica estensione ad esse delle garanzie di inviolabilità di cui all’art. 15 Cost. e, pertanto, il loro inutilizzo probatorio, a fini disciplinari.
6. Conclusioni
Non si può sottacere come il sopra riferito orientamento della Cassazione (condiviso in sede di merito) abbia destato, al suo presentarsi prima ed imporsi poi, talune perplessità, anche se – a nostro avviso – verrebbe da dire, con espressione idiomatica, che “non fa una grinza”.
Peraltro, da parte degli scettici, le perplessità nascevano da una sorta di indisponibilità “psicologica” ad accordare ad uno o più strumenti digitali di recente acquisizione tecnologica (whatsapp, chat, Facebook, ecc.) l’idoneità a “far perdere” – se attivati con l’accortezza della “forma cd. chiusa” – carattere diffamatorio ad esternazioni di per se stesse lesive della reputazione, onore e decoro personale di uno o più soggetti terzi; sia che fossero ben individuati gestori aziendali ovvero lo stesso datore di lavoro.
Invero, da parte loro si trascura di tener in debito conto il fatto che le espressioni critiche o denigratorie acquisiscono veste o colorazione diffamatoria quando si attualizza la cd. lesione dell’onore o della reputazione del destinatario, il che avviene solo mediante diffusione nella compagine sociale, giacché la diffusione all’esterno è quella suscettibile generare discredito a danno del cd. “soggetto bersaglio”.
Ma se opinioni e valutazioni, anche di segno denigratorio e intrinsecamente lesive della reputazione del datore o dei gestori aziendali, vengono effettuate in conversazioni intercorse tra una cerchia ristretta di partecipanti, spesso portatori di comuni interessi lavorativi – mediante ricorso a strumenti digitali della categoria dei social networks che, deliberatamente scelti e opportunamente utilizzati in modalità cd. “chiusa” affinché ne risulti assicurata la segretezza e la non diffusione alla generalità degli utenti – è indubbio che venga a mancare il carattere diffamatorio delle, pur denigratorie, esternazioni.
Cosicché le conversazioni in cui fra colleghi (anche con veste e impegno sindacale) si “sparla a carico del datore di lavoro” – con aggettivazioni crude e squalificanti, di norma non gratuite ma conseguenti ad una soggettiva (quindi non necessariamente realistica) valutazione negativa delle condizioni di lavoro dallo stesso assicurate ai dipendenti di cui si fa parte – finiscono per risolversi, in definitiva, in una libera e legittima manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Costituzione; nonché beneficiaria delle garanzie di cui all’art. 15 Cost., secondo cui «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili», ove quest’ultima precisazione è stata correttamente ritenuta, da Corte cost. n. 20/2017, inclusiva delle «comunicazioni telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti, o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia».