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Gli attuali requisiti per l’individuazione del mobbing, a fini risarcitori

1) Definizioni mediche e giurisprudenziali di tale pratica vessatoria

Il cd. mobbing non ha mai ricevuto – nonostante i numerosi disegni e proposte di legge depositate in Parlamento nel corso degli anni – una regolamentazione legislativa, cosicchè la sua definizione è di fonte giudisprudenziale, per la quale la magistratura si è avvalsa dei numerosi contributi dottrinali e scientifici anche di natura medica.

La dottrina medico specialistica più qualificata ha, in tal modo, descritto le caratteristiche tramite le quali, usualmente, si attualizza il cd. mobbing in danno di una persona:

«Il mobbing è comunemente definito come una forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe; l’azione persecutoria è intrapresa per un periodo determinato, arbitrariamente stabilito in almeno sei mesi sulla base dei primi rilievi svedesi, ma con ampia variabilità dipendente dalle modalità di attuazione e dai tratti della personalità dei soggetti, con la finalità o la conseguenza dell’estromissione del soggetto da quel posto di lavoro (…).La violenza morale è esercitata mediante attacchi contro la persona del lavoratore, il lavoro svolto, la funzione lavorativa ricoperta e, infine, lo status del lavoratore, da parte di un singolo soggetto protagonista (mobber), generalmente un superiore. In alcuni casi costui viene «coadiuvato» da dinamiche di gruppo complesse, intrecciate e gestite da un «coro» di colleghi che concorre – in maniera più o meno consapevole – alla violenza psicologica, sia con atteggiamento di attiva partecipazione, sia come testimone passivo, incapace di contrastare tale attività per presunte convenienze secondarie. La persona del lavoratore viene continuamente umiliata, offesa, isolata e ridicolizzata anche per quanto riguarda la vita privata. Il suo lavoro viene deprezzato, continuamente criticato o addirittura sabotato, svuotato di contenuti; il soggetto viene privato degli strumenti necessari a svolgere l’attività (sindrome della scrivania vuota) o, viceversa, sovraccaricato di lavoro e di compiti impossibili da portare materialmente a termine o inutili, ma tali da provocare o acuire i sentimenti di frustrazione e di impotenza (sindrome della scrivania piena). Il suo ruolo viene declassato, le sue capacità personali e professionali messe in discussione, o comunque fortemente in dubbio. Infine, vengono esercitate nei suoi confronti continue azioni sanzionatorie, spesso pretestuose, mediante un uso eccessivo di strumenti quali visite fiscali o di idoneità, contestazioni disciplinari, trasferimenti in sedi lontane (sotto forma di minaccia, o anche materialmente effettuati), rifiuto di permessi, di ferie e/o di trasferimenti» (i).

Da parte dottrinale e dalla prima giurisprudenza (di merito e di legittimità), il mobbing venne identificato mediante la seguente formulazione: «Si definisce mobbing – dal verbo inglese to mob (assalto di gentaglia) e dal latino mobile vulgus (folla tumultuante) – l’aggressione o la violenza o la persecuzione sul posto di lavoro perpetrata con una certa sistematicità e reiterazione da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o superiore gerarchico oppure anche da alcuni colleghi di lavoro, tramite comportamenti idonei a ledere, discriminare ed emarginare progressivamente un determinato lavoratore nell’ambiente di lavoro per estraniarlo, marginalizzarlo ed eventualmente indurlo alle dimissioni – in conseguenza diretta della caduta di autostima ed eterostima – inducendo nella vittima la distruzione delle difese psicologiche, razionali e talora immunitarie, con la conseguenza di suscitare o determinare nel soggetto-bersaglio, in casi gravi, la propensione anche al suicidio per mancanza di autorealizzazione nel lavoro e carenza di normali gratificazioni nei rapporti sociali endoaziendali».

2) La disputa tra i sostenitori della non necessità di riscontro dell’animus nocendi datoriale per l’individuazione del mobbing e quelli che lo ritennero requisito imprescindibile

E’ agevole riscontrare come nella iniziale definizione del mobbing, innanzi riferita, non sia stata conferita – sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina – rilevanza formale, né tantomeno enfatica, all’intento di danneggiare la vittima da parte del gobbe. Ciò i è ascrivibile sia al convincimento secondo cui l’obbiettivo di danneggiare lo si era presumibilmente ritenuto immanente alle angherie arrecate e/o desumibile dalla tipicità dei comportamenti ostili e vessatori avverso il cd. “soggetto bersaglio”, sia perché il fatto di conferire enfasi al riscontro preminente di questa “intenzionalità lesiva” avrebbe potuto risolversi in una richiesta probatoria troppo gravosa a carico della vittima.

L’iniziale definizione del mobbig privilegiò, pertanto, la tesi «oggettiva» strutturata dal riscontro dei fatti materiali vessatori, documentati al Giudicante, idonei, di per se – o con il corredo di certificazione sanitaria o perizia medico legale – ad attestare non solo i pregiudizi subiti ma altresì la sussistenza in capo al mobber convenuto in giudizio, di una responsabilità patrimoniale indennizzabile, quale diretta conseguenza dei comportamenti illeciti compiuti a danno del mobbizzato, non già involontariamente o giustificatamente, ma dolosamente o colposamente. Requisito, quest’ultimo, considerato, con buona ragione, sufficiente e idoneo a legittimare la richiesta di risarcimento.

Da parte di una, pur eccellente giurisprudenza di merito, nell’ultimo decennio del secolo scorso venne – tramite la motivazione delle proprie sentenze – prospettata la necessità della specificazione, anche formale, del riscontro dell’intenzionalità persecutoria datoriale, che successivamente portò ad addizionare agli altri requisiti di natura “oggettiva” (pratiche discriminatorie e/o vessatorie, sindromi depressive, nesso eziologico tra gli atteggiamenti ostili e il conseguente danno fisico o psichico, cd. biologico), il cd. requisito “soggettivo” dell’intenzionalità vessatoria (animus nocendi). Requisito che – sebbene non specificato formalmente nella definizione originaria del mobbing – poteva essere ritenuto immanente o quantomeno desumibile dalla caratteristica ritorsiva o discriminatoria delle iniziative o condotte ostili, poste in essere dal soggetto danneggiante (cd. mobber). Tale requisito “soggettivo” venne, successivamente ed enfaticamente, qualificato dalla Cassazione, unificante di tutti gli altri ed imprescindibile, con l’effetto di onerare i ricorrenti in giudizio, della prova rigorosa e indefettibile del cd. “animus nocendi” (o “puniendi”), ispiratore delle iniziative ostili e pregiudizievoli assunte dal mobber/vessatore nei confronti della vittima.

Ciò avvenne – a nostro avviso, ma del tutto realisticamente – nell’ottica di rendere più difficoltoso il conseguimento del risarcimento dei danni da parte dei lavoratori ricorrenti e, al tempo stesso, porre un freno ai nutritissimi ricorsi alla magistratura da parte degli avvocati dell’epoca, molti dei quali avevano intravisto, nella coltivazione del nuovo fenomeno, una facile fonte di guadagno, non filtrando (come avrebbero dovuto) le doglianze, più o meno fondate, dei lavoratori che ad essi si erano rivolti.

La ricerca o dimostrazione di sussistenza del cd “requisito soggettivo” di natura dolosa specifica (finalità di estromettere il lavoratore dall’azienda inducendolo alle dimissioni per insostenibilità psicologica della permanenza in servizio, sfociante talvolta in suicidio) o dolosa generica (intento di danneggiare l’equilibrio psichico del dipendente da parte del mobber o dei mobbers), determinò, all’epoca e con intuitiva immediatezza, il rigetto della maggioranza dei ricorsi dei ricorrenti, ad esempio fra tutti, da parte di Trib. Como 22/5/2001 (ii), e di Trib. Como 22/2/2003, dello stesso estensore. Ad analoghi risultati negativi per i ricorrenti, per l’addebito della mancata prova dell’elemento psicologico o soggettivo, giunse Trib. Bari, 12 marzo 2004 (iii).

Si delineava e prendeva campo, in tal modo, l’esigenza che, a fini di una presa in considerazione delle doglianze del lavoratore, venisse dimostrato dallo stesso che il comportamento vessatorio o discriminatorio del mobber (datore, superiore gerarchico o collega) fosse caratterizzato da una precisa intenzionalità di danneggiare il cd. “soggetto-bersaglio” e che le asserite vessazioni o mortificazioni non dipendessero, invece, da una situazione di conflittualità reciproca o da meri screzi in ambito lavorativo, come tali estranei al mobbing, giacché considerati fisiologici in una comunità o aggregazione di soggetti.

Sulla scia di questa impostazione si sono poste le successive, prevalenti, decisioni della stessa Cassazione – fra cui si citano le più recenti del 2020, 2021 e 2022 (iv) – nelle quali viene esplicitamente valorizzato ed altresì considerato elemento unificante dei requisiti per l’accertamento del mobbing, il riscontro probatorio, non solo della dannosità oggettiva delle iniziative vessatorie, ma anche la presenza dell’elemento intenzionale di nuocere (cd. animus nocendi o puniendi) da parte del vessatore, emergente, probatoriamente, dalle allegazioni della vittima, passate al vaglio del magistrato incaricato dell’istruttoria.

3) Indifferenza della magistratura alle considerazioni dottrinali assertrici del carattere ultroneo del riscontro del requisito soggettivo (animus nocendi) in capo al mobber, ritenuto desumibile, concludentemente, dai suoi comportamenti illeciti

Anche da parte nostra, all’epoca, ci si è spesi (v), nel tentare di far percepire e recepire il carattere ultroneo del requisito cd. “soggettivo”, così argomentando:«In ordine al riscontro dell’elemento soggettivo o teleologico della finalizzazione degli atti persecutori o vessatori, riteniamo – in contrasto con chi si ostina, anche in sede giudiziale, per tale riscontro con onere probatorio a carico del mobbizzato e non già semmai per una emersione dagli atti istruttori – che tale riscontro non sia affatto necessario, essendo sufficiente a strutturare la fattispecie non già la finalizzazione quanto la «idoneità» dei comportamenti a ledere oggettivamente la dignità, immagine e reputazione professionale del lavoratore».

Pertanto esprimemmo l’avviso che, sul punto specifico, non poteva che convenirsi con quella dottrina (vi) che, al riguardo, aveva evidenziato come: «L’idea di valorizzare l’elemento soggettivo della condotta lesiva, non solo, come si vedrà, è incompatibile col diritto vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di tale elemento. Quello che conta, invece, è la oggettività della condotta, come è stato già chiarito per le discriminazioni e per il comportamento antisindacale», da Cass., Ss.Uu., 12 giugno 1997 n. 5295 (vii)».

Tale decisione aveva risolto una divergenza di opinioni in seno alle sezioni semplici della Cassazione – in tema di condotta antisindacale – in questi termini: «Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, né nel caso di condotte tipizzate […], né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero».

Nello stesso senso ed all’epoca, da altra dottrina, era stato autorevolmente affermato: «Anche la finalità di allontanare o escludere il lavoratore dal posto di lavoro non può considerarsi un requisito presente in ogni pratica di mobbing; non è, in altri termini, necessario, o comunque rilevante, il “dolo specifico”»(viii). Ancora, in dottrina, era stato osservato che: «l’intento persecutorio della condotta non occorre ma può giovare per andare oltre il danno prevedibile»(ix) Ed ancora, in senso del tutto confermativo, venne asserito: «Ancorare la sussistenza del mobbing alla contemporanea esistenza dell’elemento doloso sembra profondamente errato, giacché ciò che deve rilevare, pur in presenza di un comportamento colposo, è l’oggettività del fatto, o dei fatti, costituenti compressione della sfera professionale e personale del lavoratore, dovendosi semmai ritenere che il profilo doloso possa, anzi debba, costituire un elemento aggravante la responsabilità del mobber in termini risarcitori»(x)

Anche da un altro autorevole accademico (xi) venne effettuata una chiara opzione per la tesi «oggettiva» asserendo che: «A mio avviso, la teoria che attribuisce rilevanza all’elemento soggettivo si espone all’obiezione, e fa correre il rischio di restringere l’ambito di operatività del mobbing, implicando la difficile verifica della intenzione del trasgressore. Laddove appare sufficiente per la ricorrenza, e la rilevanza del fenomeno che la sequenza di atti e comportamenti contrastanti con gli interessi e le esigenze del lavoratore assuma una valenza persecutoria, in cui risulta implicito, per tagliare corto alla questione, il perseguimento di una finalità illecita». E lo stesso autore, in precedenza (xii), si era così espresso: «A ben vedere l’alternativa tra le concezioni soggettiva ed oggettiva del mobbing costituisce frutto di una considerazione astratta del fenomeno, che poco contribuisce, seppure non risulta fuorviante, alla sua corretta configurazione. In effetti la distinzione, che si propone, tra motivo discriminatorio o vessatorio e l’aspetto soggettivo della condotta individuato nel dolo o nella colpa, induce ad identificare l’elemento soggettivo nella finalità illecita della condotta illegittima, riconducibile piuttosto alla componente obiettiva della condotta medesima».

Sul punto specifico – tra le diverse decisioni giurisprudenziali – si era pronunciato altresì Tar del Lazio nel 2004 (xiii), che, alla pretesa di condizionare il “mobbing risarcibile” al riscontro del requisito dell’intenzionalità vessatoria, oppose le seguenti argomentazioni: «Al riguardo va precisato che questo intento persecutorio non va configurato in termini eccessivamente soggettivistici: il Tribunale, discostandosi da un orientamento giurisprudenziale (Trib. Como, 22 febbraio 2003, in MGL 2003, 328), ritiene che non sia comunque necessario indagare nella loro interezza i motivi che sono a base dell’intento persecutorio, essendo sufficiente attenersi ai caratteri oggettivi della condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi oggettivamente vessatoria e discriminatoria), ai fini di poter considerare dolosi i comportamenti lamentati (in questo senso cfr. Trib. Milano, 20 maggio 2000, in LG 2001, 367). Risultano quindi inconferenti le deduzioni della difesa (…), secondo cui la vicenda presupporrebbe una ricostruzione in chiave penalistica, con le connesse conseguenze sia in ordine all’interruzione del cd. “nesso di occasionalità necessaria”, sia in ordine alla necessità di rilevare la sussistenza di un disegno criminoso puntualmente preordinato e coordinato in danno dell’odierna ricorrente. Siffatto ordine di idee è del tutto improprio in questa sede».

4) L’attuale definizione del mobbing e i requisiti indefettibili per il risarcimento dei danni conseguenti

La giurisprudenza della Cassazione, nonostante le fondate e/o quantomeno ragionevoli considerazioni della dottrina, innanzi riferite, ha oramai optato per l’integrazione imprescindibile dei requisiti di cui alla pregressa tesi oggettiva con quello cd. soggettivo, presumibilmente in un’ottica di deflazione dei ricorsi giudiziari, stabilendo in plurime decisioni (xiv) quanto segue:«Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698). Se ne desume che l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto; a tal fine, la legittimità dei provvedimenti può rilevare ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore; nel giudizio sulla sussistenza o meno dell’intento persecutorio rileva anche la natura pubblica del datore di lavoro, che, nel rispetto del principio costituzionale di cui all’articolo 97 Cost., è tenuto ad intervenire per assicurare efficienza, legittimità e trasparenza dell’azione amministrativa».

L’orientamento della Cassazione dell’ultimo quinquennio in particolare (2017-2022), ha portato ad espungere definitivamente dalla riconducibilità al mobbing – per carenza di prova dell’animus nocendi datoriale – le amarezze e le mortificazioni sfociate in sindromi depressive, frutto di una interpretazione soggettiva ed ipersensibile (da parte ricorrente) delle invero legittime decisioni datoriali, sebbene implicanti demansionamenti (spostamento ad incarichi e in mansioni deteriori) (xv), trasferimenti e simili, qualora motivati da riorganizzati aziendali di plurimi settori o dell’intera azienda, interessanti quindi tutto il personale o la maggioranza dei dipendenti; così pure estranei al mobbing sono stati considerati i comportamenti ostili riconducibili a conflitti interpersonali intercorsi tra le parti in contesa, non trasmodati in vessazioni (xvi). Alle stesse conclusioni di estraneità al mobbing, sono state ritenute le asserite mortificazioni subite da una lavoratrice ricorrente avverso i colleghi, una volta che sia stata riscontrata, in varie occasioni, una sua non indifferente reattività, ritenuta dal giudicante idonea a privarla dal rivestire l’asserito ruolo di vittima. La valorizzazione della cd. reattività (quasi fosse una colpa) la si riscontra, originariamente, nella decisione resa dal Tribunale di Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002 (xvii), che, nel respingere la domanda di mobbing proposta da una lavoratrice per l’assenza di «un coerente piano di terrorismo psicologico», pose in rilievo, quale fattore di esclusione, proprio «una situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente rendeva difficile la vita in quell’ambiente di lavoro, ma che non può e non deve essere interpretata in senso unidirezionale»Venne, infatti, imputato alla ricorrente «di aver sempre affrontato ogni situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo assumendo l’atteggiamento tipico della vittima di mobbing», avendo al contrario manifestato «un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei colleghi, quando le è sembrato di essere vittima di atteggiamenti ingiusti». Pur tuttavia, da parte dello stesso organo giurisdizionale, venne fatto un deciso altolà ai diffusi tentativi delle difese datoriiali tesi a sottrarre da responsabilità il mobber, mediante eccezioni/illazioni fondate sulla presunta fragilità psicologica delle vittime, eccezioni cui venne così replicato: «… un ultimo cenno sia consentito di fare al punto delle condizioni soggettive della vittima, al fine di escluderne qualsiasi rilevanza ai fini del riconoscimento del  diritto al risarcimento del danno patito. A suoi  eventuali stati individuali di particolare fragilità e sensibilità emotiva, ed a sue precedenti sofferenze, per alterazioni fisiche o psichiche,  non potrà mai farsi riferimento al momento di valutare la responsabilità del datore di lavoro per comportamenti rivelatisi idonei a ledere l’integrità psichica, ovvero altri beni insopprimibili costituzionalmente garantiti, quali la dignità personale».

Ciò detto conviene, altresì segnalare come. Apprezzabilmente, la Cassazione non sia mai giunta a recepire talune – se non irridenti, quantomeno poco sensibili – considerazioni di taluni autori che occasionalmente si sono occupati del mobbing, i quali fecero leva argomentativsa – in un’ottica di marginalizzazione del fenomeno e del conseguente danno esistenziale – sulla presunta inesistenza per il lavoratore di un «diritto alla felicità, tanto meno pretendibile nel rapporto di lavoro» (xviii). Ovvero effettuarono la gemella affermazione, secondo cui «il prestatore di opere non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l’azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercé sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico. Il diritto del lavoro non interferisce con questi aspetti dell’organizzazione e tanto meno impone comportamenti corretti dal punto di vista etico (…). L’illecito non coincide con quanto è sgradevole sul piano morale e, per converso, il datore di lavoro che opera nella legittimità non deve essere di necessità un buon organizzatore dell’azienda ed un attento psicologo nello scrutare nell’animo dei suoi collaboratori. L’azienda è una formazione sociale “necessitata”, proprio perché la convivenza umana è in sua natura poco gradevole ed oggetto di un obbligo, derivante dal contratto di lavoro»(xix).

Parimenti inidonee ad essere ricondotte nel mobbing, furono (e sono) ritenute le vessazioni cd. saltuarie, subite dalla vittima ed inferte dal presunto mobber in forma sistematicamente “non continuativa”, cioè episodica o saltuaria. che – secondo la Cassazione – sono da ricondursi ad un altro fenomeno, di natura più tenue del cd. mobbing, terminologicamente qualificato “straining”.

5. Il fenomeno “straining” ed il suo ruolo “compensativo” dei danni da comportamenti ostili, non riconducibili al mobbing

Una volta riservata al mobbing una configurazione a forte contenuto vessatorio e/o ritorsivo, intenzionalmente finalizzato a traguardare l’obbiettivo dell’espulsione del “soggetto bersaglio” dall’azienda, inducendolo alle dimissioni a causa dell’insopportabilità psicologica dei trattamenti ostili e vessatori indirizzatigli, la giurisprudenza si rese conto che, comunque, iniziative e comportamenti dannosi meno incisivi ma egualmente illeciti non potevano godere di impunità.

Tali comportamenti, seppur privi della ossessiva e ininterrotta continuità e dell’intenzionale finalizzazione a determinare nel “soggetto bersaglio” la cd. “catastrofe emotiva” propedeutica alle dimissioni, non potevano comunque passare inosservati e beneficiare di una colpevole tolleranza o indifferenza.

Per una loro sanzionabilità, si sono espresse, inequivocamente, le più recenti sentenze di legittimità, asserendo:

«Anche laddove non si riscontri il carattere della continuità e della pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n. 18164 del 2018) o le stesse siano comunque limitate nel numero (Cass. n. 7844 del 2018) può comunque giustificarsi la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. da parte del ricorrente, nel caso in cui si accerti che le condotte datoriali inadempienti risultino comunque produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore. E’ l’ipotesi qualificata anche in giurisprudenza – con definizione mutuata dalla psicologia – come straining: una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, in quanto la condotta nociva può realizzarsi anche con una unica azione isolata o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino, con efficienza causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici (per tutte, v. Cass. n. 3291 del 2016)».(xx).

6. Precisazioni su aspetti processuali …

La giurisprudenza consolidata della Cassazione si è premurata, poi, di effettuare puntualizzazioni – stavolta a beneficio dei ricorrenti – anche in ambito processuale.

Qualora in primo grado sia stato loro disconosciuto il mobbing – ma al tempo stesso i ricorrenti abbiano subito angherie sporadiche o modeste vessazioni ovvero abbiano sofferto danni fisici o psichici da “stress lavoro correlato” (xxi), per la colpevole incuria datoriale di attivarsi a sottrarli, in applicazione dell’art. 2087 cod. civ., ad un ambiente insano dal punto di vista della sicurezza fisica e della serena convivenza sociale – la Cassazione ha affermato che è, pacificamente, esperibile la riproposizione/conversione, dell’originario ricorso disconosciuto per mobbing,in ricorso per straining, in sede di rinvio, id est in appello. Atteso che, secondo la Cassazione,: «non può considerarsi preclusiva di una valutazione della condotta come “straining” la prospettazione, nel ricorso di primo grado, di tale condotta come mobbing, non sussistendo alcuna novità della questione, trattandosi soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale (in tali sensi le già citate Cass. n. 3291/2016; Cass. n. 7844/2018; Cass. n. 18164/2018) (…)». Asserendo altresì (xxii) che: «ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”), e, a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (cfr. Cass. 19.2.2016); (…). Cosicché, anche dopo che è stata esclusa una “macchinazione dolosa” nei confronti del lavoratore, essendo stato, invece, acclarato che lo stesso versava “in condizioni di sostanziale inoperosità”, con progressivo “svuotamento” delle mansioni affidate, il giudice del rinvio dovrà accertare se da tale condotta del datore di lavoro, anche se colposa, siano causalmente derivati danni alla persona del lavoratore a contenuto non patrimoniale e provvedere alla loro liquidazione».

6.1)sull’inutilizzo delle pregresse condizioni di salute della vittima, a fini riduttivi del danno risarcibile …

Ancora, e condivisibilmente, la giurisprudenza di Cassazione, ha disatteso – in fattispecie di mobbing o straining inflitto a soggetti con personalità cd. “pre-morbosa” o predisposta alle sindromi neuro depressive, rifluenti in danno biologico – il tentativo delle difese legali datoriali, postulanti uno “sconto” o riduzione della percentuale di danno biologico risarcibile, arrecato dalle condotte pregiudizievoli poste in atto dal mobber. Ha, pertanto, asserito l’integrale responsabilità risarcitoria in capo al danneggiante (datore, preposto o collega), richiamandosi (al) e facendo, a tal fine, applicazione del principio di diritto (espresso da Cass., Sez. 3, n. 15991 del 21 luglio 2011, poi confermato da Cass., Sez. 3, n. 30521 del 22 novembre 2019), secondo cui: «In materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “con-causale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio».(xxiii).

6.2) …sull’attribuzione risarcitoria in capo all’INAIL (per il solo danno biologico), con diritto di regresso sul datore al riscontro giudiziale di comportamenti penalmente rilevanti, costituenti reato perseguibile d’ufficio

Infine, alla legittima domanda del lettore o del ricorrente: “chi risarcisce il danno biologico da mobbing? ” va risposto, da parte nostra, facendo presente che la Cassazione, con orientamento oramai consolidato – a partire dalle sentenza n. 8948 del 14/5/2020, n. 5066, fino alla recentissima n. 31514 del 25/10/2022 – ha stabilito la ricorrenza dell’obbligazione risarcitoria in capo all’’INAIL, alla quale è tenuto per tutte le malattie, anche diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate dal D.P.R. n. 1124/1965, purché si tratti di malattie delle quali sia stata provata, con nesso eziologico (cioè di causa ad effetto), l’origine lavorativa. Richiamando, altresì, a supporto ed in senso confermativo di tale attribuzione risarcitoria in capo all’Ente assicuratore, la sentenza della Corte a sezioni unite (n.3476/94) che stabilì – sin dal 1994 – che «la tutela assicurativa è da rapportare al lavoro in sé e per sé considerato e non soltanto a quello reso presso le macchine». Dunque, l’assicurazione è da ritenersi obbligatoria per tutte le malattie, anche diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate al d.P.R. n.1124/65 (cd. malattie tabellate) e da quelle causate da una lavorazione specifica o da un agente patogeno indicato nelle tabelle, purché si tratti di malattie delle quali sia provata la causa di lavoro (v. Cass. n. 5066/2018).

Tale interpretazione è oggi confermata testualmente dalla L. n. 38 del 2000, art. 10, comma 4, dal quale risulta che «sono considerate malattie professionali anche quelle non comprese nelle tabelle di cui al comma 3, delle quali il lavoratore dimostri l’origine professionale». Ne è conseguita la definitiva affermazione secondo cui – nell’ambito del sistema del TU (D.P.R. n. 1124/1965) – sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come peraltro prevede oggi a fini preventivi, l’art. 28, comma 1, del T.U. n. 81 del 2008).

Quanto sopra asserito avviene, in via di normalità e per effetto dell’art. 10, comma 1, D.P.R. n. 1124 del 1965, che ha stabilito che l’assicurazione obbligatoria esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nell’ambito dei rischi coperti dall’assicurazione, inclusi i danni da mobbing (che nell’ambito dell’Inail sono qualificati “da costrittività organizzativa”). Tuttavia, qualora alla condanna civile di natura patrimoniale si aggiunga anche quella penale – in accoglimento della richiesta del mobbizzato che abbia addotto, in fatto, circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, sottolineando che «anche la violazione delle regole di cui all’art. 2087 c.c., norma di cautela avente carattere generale, è idonea a concretare la responsabilità penale (Corte cost. n. 74 del 1981; Cass. n. 1579 del 2000)» – l’esonero datoriale viene meno e l’indennizzo grava integralmente sul datore convenuto in giudizio. Spetterà poi al giudice il compito di qualificare giuridicamente i fatti e sussumerli nell’alveo della fattispecie penalistica, accertando autonomamente ed in via incidentale la sussistenza del reato.

Infine la Cassazione ha, altresì, va sgomberato il campo dalla tesi sostenuta insistentemente dai legali del mobber, secondo i quali “la liquidazione dell’indennizzo a carico dell’INAIL configurerebbe una vera e propria condicio iuris preclusiva del risarcimento patrimoniale gravante sul datore mobbizzante (xxiv), evidenziando, inoltre, che – anche quando venga esclusa, nel giudizio di fatto, l’esistenza “di una macchinazione dolosa finalizzata all’emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro”- nondimeno ciò non elide affatto la responsabilità del datore di lavoro per i danni alla persona, subiti dal lavoratore a causa di un inadempimento degli obblighi datoriali, anche a titolo di mera colpa.

Infine qualora al comportamento vessatorio – per intenzionalità congiunta a gravità dei pregiudizi psicofisici arrecati alla vittima – venga riconosciuta anche la qualifica di reato perseguibile d’ufficio (quali: lesioni personali ex art.582 c.p., maltrattamenti ex art.572 c.p.,violenza privata ex art. 610 c.p.), l’art. 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965, nella ricorrenza del presupposto penalistico, consente all’INAIL di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro “per le eventuali somme pagate a titolo di indennità“, per cui l’onere patrimoniale risarcitorio graverà integralmente sul mobber danneggiante (xxv).

Note: 

i Così Gilioli R. (e altri), primario del Centro per le patologie stress correlate e mobbing della Clinica del lavoro “L. Devoto” dell’Un. di Milano, nello studio: Un nuovo rischio all’attenzione della medicina del lavoro: le molestie morali (mobbing), «Consensus document».

ii Est. Fargnoli, in Lav. giur. 2002, 73 (con nota di Ege H.) e in Orient. giur.lav. 2001,I, 277 (con nota di Quaranta). Contra di Trib. Milano 20/5/2000, in LG 2001, 367.

iii Est. Rubino, in D&G n. 15/2004.

iv Cfr., Cass. n. 2059/2022; Cass. n. 35235/2022, Cass. n. 32018/2022, Cass. n. 32020/2022, Cass. 24339/2022, Cass. n. 17774/2022, Cass. n. 28120/2021, Cass. n. 27913/2020 ed altre precedenti, conformi.

v Si veda, al riguardo, Meucci M. Il rapporto di lavoro in azienda, Ediesse, Roma 2008, p. 108 e ss.

vi Vallebona A., Il mobbing senza veli, in DRI, 4/2005, 1052 e ss., concetto ripetuto dall’autore in Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi, in MGL 2006, 9.

vii Da noi commentata in D&L 1998, nell’articolo:Irrilevanza dell’intenzionalità nella condotta antisindacale, ivi 1998, 293.

viii Banchetti S., Mobbing, danni alla persona del lavoratore e strumenti di tutela, in www. personaedanno.it, 2005, 5; Banchetti S., Il mobbing, in Trattato breve dei nuovi danni, a cura di Cendon P., Cedam, Milano 2001, 2082; Ege H., nota critica a Trib. Como, 22/5/2001, in LG 2002, 76;

ix Così Pedrazzoli M. (a cura di), Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli, Bologna 2007, 28 e ss.

x Così Cardarello C., Il mobbing e il risarcimento del danno: quando le sentenze anticipano le norme, in D&G, n. 9, 2005, 55.

xi Scognamiglio R., A proposito di mobbing, in RIDL 2004, I, 503-505 e in Mobbing: profili civilistici e giuslavoristici, in MGL 2006, 5.

xii Scognamiglio R., A proposito di mobbing, op. cit., I, 503-505.

xiii Tar del Lazio, III sez. bis, 12-1/5-4.2004 (est. Arzillo, ).

xiv Vedi le sentenze citate in nota 3.

xv Vedi il caso deciso da Cass., sez. lav., 23/5/2022 n. 16580 nonché da 14/10/2021, n. 28120.

xvi Vedi il caso deciso da Cass., sez. lav, 6/10/2022, n. 29059.

xvii Est. Sanlorenzo, leggibile al link del nostro sito: Menzionata altresì nell’articolo del 15/10/2022 di Tambasco D., Le tensioni esorbitanti possono essere causa di mobbing o di straining: la Cassazione ridisegna i limiti della conflittualità lavorativa, in riv. Labor.

xviii Cfr. Agrifoglio S., In in Vallebona A., op. cit. nt. 6.

xix Cfr. Gragnoli E., rel. al Convegno “Il Mobbing”, Centro Studi D. Napoletano, Cosenza 12/4/2003, opinione ripresa da Trib. Bari 12/3/2004 (est. Rubino).

xx Così, ex plurimis, Cass. sez. lav., 15/11/2022, n. 33639.

xxi Tutelato dall’ art. 2087 cod. civ,, nonché dall’art. 28 del T.U. n. 81 del 9 aprile 2008, in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 […]». Accordo sottoscritto dalle parti sociali a livello comunitario sullo “stress da lavoro”, definito come uno «stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali che, in caso di “esposizione prolungata”, può causare problemi di salute» (par. 3) e che, pertanto, investe la «responsabilità dei datori di lavoro […] obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori»(par.5).

xxii Vedi Cass., sez. lav. , 4/10/2019 n. 24883.

xxiii Così Cass., sez. lav., 28/10/2022 n. 32018.

xxiv Cosi Cass. 15/11/2022 n. 33639

xxv Cfr. Cass. n. 9166/2017, Cass.44890/2018.

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