Il giudice non concede i termini ex art. 183 vi° comma cpc: come va proposto l’appello?
Con l’ordinanza n. 17685 del 31 maggio 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata su come, nei giudizi civili, la parte che si è vista rigettare dal Giudice alla prima udienza la richiesta di concessione dei termini previsti dal sesto comma dell’art. 183 c.p.c. per la precisazione o modificazione delle domande e formulare le prove deve proporre appello per far valere l’illegittimità della decisione.
Mercoledi 8 Giugno 2022 |
IL CASO: La vicenda esaminata nasce da una sentenza con la quale il Tribunale, dopo aver rinviato alla prima udienza la causa per la decisione senza concedere i termini ex art. 183, VI° comma c.p.c. richiesti dall’attore e senza svolgere nessuna attività istruttoria, dichiarava inammissibile la domanda proposta da quest’ultimo e lo condannava al risarcimento dei danni in favore del convenuto per lite temeraria.
La Corte di Appello, chiamata a pronunciarsi sul gravame interposto dall’originario attore, riformava la sentenza di primo grado limitatamente alla quantificazione del danno ex art. 96 c.p.c., rideterminando la somma liquidata. La Corte territoriale rigettava, tra l’altro, anche il motivo di gravame con il quale era stata censurata la mancata concessione dei termini previsti dal VI° comma dell’art. 183, evidenziando che l’attore avrebbe dovuto formulare in appello le istanze istruttorie, non configurandosi un’ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado.
Pertanto, l’indomito attore si rivolgeva alla Corte di Cassazione deducendo, con il primo motivo, l’erroneità della decisione dei giudici di merito, sostenendo che la concessione dei termini dell’art. 183, VI° comma era obbligatoria a pena di nullità della sentenza di primo grado e che non vi era stata nessuna sua rinuncia ai predetti termini, avendo reiterato la richiesta all’udienza di precisazione delle conclusioni e specificato anche le difese e le prove che non aveva avuto modo di formulare in primo grado.
LA DECISIONE: Anche la Cassazione ha dato torto all’originario attore, la quale, dopo aver evidenziato che la sussistenza o meno di un obbligo del giudice di concedere, ove richiesti, i termini per lo svolgimento delle facoltà difensive previste dal VI° comma dell’art. 183 c.p.c. è tutt’altro che pacifico all’interno della giurisprudenza di legittimità, ha rigettato il motivo del ricorso, osservando che:
– in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., in forza del combinato disposto dell’art. 187, comma 1, c.p.c. e dell’art. 80-bis disp. att. c.p.c., la richiesta della parte di concessione dei termini ex art. 183, VI° comma c.p.c., n. 3, non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione;
– una diversa interpretazione delle norme, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il “favor” legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall’art. 189 c.p.c. (Cass. 4767/2016; Cass. 8287/2017; Cass. 7474/2017);
– comunque, se nel corso del giudizio di primo grado la richiesta di concessione dei termini ex art. 183, VI° comma c.p.c. viene rigettata, l’eventuale illegittimità di tale diniego deve essere fatta valere dalla parte con l’appello attraverso le allegazioni difensive e l’introduzione delle richieste istruttorie, data l’impossibilità di rimettere la causa in primo grado e l’obbligo del giudice di pronunciare nel merito;
– nel caso in cui l’appellante deduca il vizio della sentenza di primo grado per avere il Tribunale rinviato la causa per la decisione prima che le parti avessero definito il “thema decidendum” e il “thema probandum”, per far valere la suddetta nullità – una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo giudice – non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il “thema decidendum” sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’art. 183 c.p.c. e quali prove sarebbero state dedotte, poiché in questo caso il giudice d’appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attività non potute svolgere in primo grado (Cass. 9169/2008; Cass. 23162/2014; Cass. 24402/2018; Cass. 21953/2019).