Il rinvio della rivendicazione dei crediti di lavoro a fine rapporto
Non era affatto così, tant’è che quei lavoratori che rinviavano a fine rapporto le loro rivendicazioni – in forma di un ristoro indennitario/retributivo, supportato da prove inconfutabili – incorrevano, ciononostante, nella sgradita sorpresa di vedersi eccepire, dai legali del datore di lavoro (e dal Giudice del lavoro), che quanto richiesto si era nel frattempo prescritto, salvo i soli crediti afferenti all’ultimo quinquennio, i soli sottrattisi alla cancellazione dal decorso della prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 4, cod.civ., operante in corso di rapporto.
La vanificazione dei crediti non rivendicati durante lo svolgimento del rapporto di lavoro discendeva dal fatto che – secondo diverse sentenze della Corte costituzionale, condivise poi anche dalla Cassazione – l’assicurata stabilità d’impiego (riscontrata nella sanzione, ex art. 18 l. n. 300/70, in capo al datore, rinvenibile nella reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, dietro riscontro giudiziale del carattere ingiustificato del licenziamento irrogato), era stata considerata idonea a dissolvere nel lavoratore il rischio/timore di reazioni ritorsive datoriali a fronte di una iniziativa giudicata ostile in corso di rapporto (la mera rivendicazione, dopo sollecitazioni disattese, di un credito insoddisfatto per lavoro straordinario, ferie, e simili).
Talché l’eventuale inerzia rivendicativa – in corso di rapporto avverso il proprio datore – dei propri diritti non soddisfatti era stata ritenuta ingiustificata – stante la giuridicamente presunta (piuttosto che reale) assenza di un metus paralizzante l’iniziativa rivendicativa. Tale inerzia era, pertanto, meritevole di legittimare la vanificazione dei diritti medesimi per effetto del decorso della prescrizione (quinquennale, per i crediti retributivi, decennale per quelli risarcitori di danno, sia da dequalificazione/demansionamento, sia biologico per pregiudizio alla salute, esistenziale, e simili).
2. La situazione passata
Merita precisare che una prima decisione della Corte costituzionale (n. 63/1966) – che si era espressa anteriormente all’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970) – aveva asserito che: «in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; di modo che la rinuncia, quando è fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità è sancita dall’art. 36 della Costituzione: lo stesso art. 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l’annullamento della rinuncia proprio se questa è intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo. In sostanza si è voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto […]».
Da queste considerazioni conseguì, pertanto, la dichiarazione di «illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro» (in senso conforme Corte Cost. sent. n. 143/1969).
Dalla dichiarazione di incostituzionalità discese, per via giurisprudenziale, la regola del “differimento”, alla fine del rapporto di lavoro, del decorso della prescrizione per l’azione volta a rivendicare gli stretti titoli retributivi rientranti nell’ambito del “salario minimo familiare”(di cui si occupa appunto l’art. 36 Cost., in relazione al quale la Consulta dichiarò la parziale illegittimità delle disposizioni sulla prescrizione).
La Corte costituzionale – attraverso posteriori decisioni (n. 143/1969; n. 86/1971 ed infine n. 174/1972) – si pose allora, apertis verbis, il quesito (positivamente risolto) se, per effetto delle introdotte innovazioni legislative (ripetesi: legge sulla “giusta causa e giustificato motivo” nei licenziamenti individuali e Statuto dei lavoratori) non fosse venuto meno anche il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione delle disposizioni civilistiche sulla prescrizione, stabilita nella precitata sentenza n. 63 del 1966.
E pervenne così alla conclusione che il principio del differimento, all’epoca dell’estinzione del rapporto, della decorrenza della prescrizione non era affatto applicabile «tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione».
L’orientamento ricevette conferma dalle S.U. della Cassazione nella sentenza n. 1268 del 12 aprile 1976, la quale asserì, con tutta chiarezza, che la decorrenza della prescrizione ordinaria (quinquennale, per i crediti retributivi del lavoratore) «non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende (…) dal grado di stabilità del rapporto stesso», dovendosi «ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo».
Affermò, al riguardo, la Cassazione che, agli effetti della dilazione del decorso della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, «per la generalità dei casi, coincide oggi con l’ambito di operatività della legge 20.5.1970 n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali)», potendo tuttavia «anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d’opera una tutela di pari intensità».
Infine, in senso confermativo, si espresse, a distanza di 20 anni, nuovamente Cass. n. 5494 del 20 giugno 1997, precisando che: «ai fini della decorrenza della prescrizione (in corso di rapporto, ndr) la configurabilità di un rapporto di lavoro assistito dalla garanzia della stabilità [ …] va riconosciuta allorquando […] il posto di lavoro – quale che sia la natura pubblica o privata del datore di lavoro – possa essere oggetto di una tutela reale, la quale consenta, cioè, non soltanto il risarcimento del danno di fronte all’illegittimo licenziamento, ma anche la reintegrazione del lavoratore, ai sensi dell’art. 18, l. 20 maggio 1970 n. 300, ovvero di altre disposizioni che comunque garantiscano la stabilità …».
3. La situazione attuale, caratterizzata dal depotenziamento delle tutele di cui al modificato art. 18 Statuto dei lavoratori
L’iniziale errata convinzione dei lavoratori della possibilità di una rivendicazione integrale a fine rapporto – senza alcun pregiudizio ad opera della prescrizione per i propri crediti insoddisfatti – sta acquisendo carattere veritiero, a partire dal 18 luglio 2012.
Da quella data sono entrati, infatti, in vigore i provvedimenti modificativi in peius delle tutele accordate, dall’originario art. 18 Stat. lav., ai lavoratori, costituiti dalla cd. “riforma Fornero” (l. n. 92/2012, in vigore dal 18 luglio 2012) e dal d.l. n. 23/2015, attuativo del cd. Jobs act; provvedimento, quest’ultimo che, oltre a proseguire – con una certa maggior perfidia verso i soggetti deboli nel rapporto di lavoro – il percorso tracciato dalla cd. “riforma Fornero”, ebbe a disporre che i futuri neo assunti, a partire dalla data del 7 marzo 2015, fossero destinatari, non già della tradizionale tipologia di contratto a tempo indeterminato ma di un contratto deteriore (in maniera inveritiera qualificato a cd. “tutele crescenti”), sprovvisto – salvo che per l’ipotesi del licenziamento discriminatorio in senso lato – del rimedio della reintegra.
Rimedio, pertanto, sostituito, in netta prevalenza per la maggior parte delle fattispecie di licenziamento, dalla “monetizzazione” della perdita del posto di lavoro (misura, peraltro, inadeguata, ancorata ad un plafond o tetto massimo, che, in quanto sottratta altresì alla valutazione del Giudice, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 194/2018. Nonché giudicata in contrasto con l’art, 24 della Carta sociale europea dal Comitato europeo per i diritti sociali – Ceds – con deliberazione dell’11 febbraio 2020, e sulla cui messa in discussione pendono ricorsi giudiziari del Tribunale di Milano e della Corte d’appello di Napoli, rivolti, nuovamente, alla Corte costituzionale nostrana e alla Corte di giustizia europea, non ancora decisi).
Non si può assolutamente negare che i suddetti provvedimenti legislativi (adottati per sollevare la parte datoriale dai cd. “lacci e laccioli” che, del tutto infondatamente, avrebbero limitato la propensione datoriale alle nuove assunzioni), abbiano, oggettivamente, relegato in un ruolo marginalissimo e residuale il pregresso rimedio della reintegra avverso i licenziamenti arbitrari/ingiustificati.
Con la conseguenza di aver comportato la reviviscenza, in tutti i lavoratori subordinati, di quello stato di soggezione (cd. metus) che la Corte costituzionale del 1966 aveva riscontrato risultare ostativo alla libera determinazione a rivendicare, in corso di rapporto, i propri diritti.
Il realizzato confinamento in fattispecie residuali dell’originario rimedio della reintegra – che venne ipotizzato, da Corte cost. 174/1972, neutralizzatore del “metus” del prestatore nonché garante della cd. stabilità reale (invero insussistente in nuce, in quanto la cd. garanzia di stabilità d’impiego era subordinata ad un provvedimento a posteriori di imposta ricostituzione giudiziale di un rapporto infranto) – emerge ictu oculi dal rinvenimento della reintegra solo nelle seguenti circoscritte fattispecie:
a) del licenziamento discriminatorio (ai sensi dell’art. 15, l. n. 300 e successive modificazioni ovvero perché riconducibile al licenziamento nullo per ritorsione o rappresaglia e per gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge);
b) del licenziamento nullo perché intimato in forma orale;
c) del licenziamento disciplinare, per il quale «esclusivamente venga in giudizio provata» (con onere talora difficoltoso per il lavoratore incolpato) «l’assoluta inesistenza del fatto materiale», posto a base della sanzione espulsiva.
In contrapposizione, nel modificato art. 18 Stat. lav., l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria (con monetizzazione) è amplissimo, estendendosi alle fattispecie:
1) dei licenziamenti cd. economici ingiustificati (per giustificato motivo oggettivo), asseritamente ascritti a ristrutturazioni, riorganizzazioni aziendali e simili, reali o simulate, che, se anche riscontrate fittizie (in toto o in parte), implicavano originariamente per il lavoratore licenziato la sola corresponsione di un indennizzo pari all’importo prestabilito di 2 mensilità per ogni anno di servizio [con un minimo di 4 ed un massimo di 24 (art.3, 1 co., d.lgs. n. 23/2015), ora elevate a 6 e 36 per effetto correttivo della loro inadeguatezza ad opera del cd. “decreto dignità” n. 87/2018]. Naturalmente dietro statuizione di infondatezza del licenziamento da parte di un Giudice, originariamente vincolato ai tetti minimi e massimi prefissati nella legge, stabiliti dal “collaborativo” legislatore dell’epoca, per consentire ai datori di lavoro la previa conoscenza e sostenibilità del costo di un licenziamento, per così dire, “standard”.
Il tutto prima della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità, da parte di Corte cost. n. 194/2018, del meccanismo fissativo degli importi risarcitori, la cui sottratta determinazione al magistrato occupatosi della vertenza, è stata riassegnata (ripristinando la situazione precedente) dalla Corte costituzionale precitata, alla valutazione discrezionale del Giudice, in considerazione del riscontrato vizio legislativo di esclusiva correlazione delle misure indennitarie al parametro dell’anzianità di servizio, pertanto giudicate anelastiche e disancorate dal danno concreto inflitto al licenziato nonché dal requisito dimensionale dell’impresa, cioè dai parametri codificati nella l. n. 604/1966;
2) dei licenziamenti disciplinari (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) viziati da carente proporzionalità della sanzione espulsiva, rispetto alla modestia della trasgressione o inadempienza, in palese violazione dell’art. 2106 cod. civ.. che ne postula il rispetto. Al riguardo va fatto rilevare come il legislatore del cd. Jobs act abbia voluto, intenzionalmente, legittimare l’invalidazione giudiziale del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore conizionandola al riscontro, da parte del magistrato, della insussistenza del “fatto materiale” contestato al licenziato (ovvero alla difficoltosa dimostrazione in giudizio, da parte dello stesso licenziato, della suddetta inconsistenza del fatto addebitato), il tutto a prescindere dalla gravità o tenuità o assoluta irrilevanza di pregiudizio, in termini di rilevanza disciplinare o di danno per l’impresa arrecato dell’inadempienza del lavoratore.
In tema, va aggiunto che il “marchingegno” a fini espulsivi del lavoratore – individuato dalla cd. “riforma Fornero” del 2012 mediante la locuzione “fatto contestato” e su di esso poggiante, due anni dopo affinato (dal decreto attuativo n. 23/2015 del cd. Jobs act) nella locuzione “fatto materiale” trasgressivo – ha impegnato un’equilibrata giurisprudenza della Cassazione (ex plurimis, da ultimo, Cass. 12174 dell’8 maggio 2019), nella conversione interpretativa di entrambe le locuzioni precitate, in “fatto giuridico, come tale disciplinarmente rilevante. Fatto giuridico”(quindi non solo materiale), il solo idoneo, per la gravità dell’inadempienza del lavoratore, ad assumere, per volontarietà e/o colpevolezza, caratteristiche del “giustificato motivo” o della “giusta causa” di licenziamento, ai sensi della normativa legale e contrattuale vigente;
3) dei licenziamenti affetti da quelli che la rubrica dell’art. 4 del d.l. n. 23/2015 qualifica “vizi formali o procedurali”, consistenti nella mancata osservanza della motivazione di cui all’art. 2, 2 co., della L. n. 604/’66 e della procedura di cui all’art. 7 della L. n. 300/’70, al riscontro dei quali il Giudice dichiara comunque la risoluzione del rapporto del licenziato, liquidando al lavoratore un indennizzo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 ed un massimo di 12.
4. Conclusioni
Dalle considerazioni sopra esposte emerge come al depotenziamento subito dall’art. 18 Stat. lav. si sia accompagnata, per tutti i lavoratori subordinati, la riemersione o riappropriazione dell’originaria (mai dissolta, ma solo virtualmente ridimensionata o limitata) preoccupazione che la libera rivendicazione dei propri crediti retributivi, in corso di rapporto, risulti inibita dal timore di reazioni ritorsive datoriali, non reversibili ed oramai non più sanabili mediante il pregresso rimedio sanzionatorio della reintegrazione, sostituito pressoché totalmente da un indennizzo monetario, peraltro di misura oltremodo modesta.
In tal senso si è espressa la prevalente – quanto, intuitivamente scarsa (per la comprensibile ritrosia dei lavoratori a portare in giudizio il datore o la “grande azienda”) -giurisprudenza di 1° e 2° grado.
Per tutte si menziona la motivazione resa dalla più recente delle sentenze di merito – Corte d’appello di Milano 25/10/2021, n. 1352 – che si è così espressa: «Il quadro normativo, rispetto alle citate pronunce della Consulta (nn. 174/1972 e 63/1966, ndr) è radicalmente mutato a seguito dell’entrata in vigore della legge 92/2012, che ha riformato l’art. 18 L. 300/70, approntando un articolato sistema sanzionatorio nel quale la reintegrazione è stata fortemente ridimensionata, riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezione rispetto alla tutela indennitaria che assurge a regola. Il testo attualmente vigente dell’art. 18 L. n. 300 del 1970, a differenza di quello originario, prevede infatti la tutela reintegratoria solo per talune ipotesi di illegittimità del licenziamento (commi 1, 4, 7), mentre per altre fattispecie prevede unicamente una tutela indennitaria (commi 5 e 6); ne consegue che, nel corso del rapporto, il prestatore di lavoro si trova in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela (reintegratoria o indennitaria) applicabile nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post nell’ipotesi di contestazione giudiziale del recesso datoriale.
È pertanto ravvisabile la sussistenza di quella condizione di metus che, in base ai consolidati principi dettati dalla richiamata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, esclude il decorso del termine prescrizionale in costanza di rapporto di lavoro.
Il Collegio, alla stregua di tali consolidati e condivisibili principi, ritiene che, a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012 all’art. 18 L. n. 300 del 1970, la prescrizione dei crediti retributivi non decorra in costanza di rapporto di lavoro, anche ove a questo sia applicabile l’art. 18 novellato, come nella presente fattispecie».
In senso del tutto conforme, peraltro, si menzionano le sentenze precedenti rese da: Corte d’appello di Milano n. 376 del 30 aprile 2019; Trib. Alessandria, 9 gennaio 2019, n. 4; Trib. Firenze, 16 gennaio 2018, n. 25; Trib. Milano 16 dicembre 2015 n. 3460, Trib. Milano n. 2625/2016, Trib. Bergamo n. 585/2016; in senso contrario C. App. Milano, n. 35 del 19 febbraio 2019, Trib. Milano 24 aprile 2014, Trib. Milano, 7 ottobre 2016, n. 2576.
Merita, a nostro avviso, piena condivisione questo recente orientamento che ha statuito la sospensione del decorso della prescrizione estintiva quinquennale dei crediti retributivi non rivendicati in costanza di rapporto, con rinvio della decorrenza a rapporto esaurito, per tutti indistintamente i lavoratori – a partire dal 18 luglio 2012 (data dell’entrata in vigore della “riforma Fornero”, atto normativo iniziale del depotenziamento dell’art. 18 Stat. lav.).
Naturalmente la legittimazione alla rivendicazione, a rapporto di lavoro esaurito, vale per i soli crediti retributivi maturati dopo la data del 18 luglio 2012 e non per quelli maturati antecedentemente a quella data, oramai estinti per decorsa prescrizione, in corso di rapporto cd. stabile, anteriormente a quella data.
A prescindere dal riconoscimento giuridico della ripresentazione del cd “metus”, in conseguenza del depotenziamento della misura reintegratoria di cui al testo originario dell’art. 18 Sta.lav., va espresso – per realistica notorietà e constatazione – l’avviso che il cd. metus del prestatore non è stato mai dissolto integralmente, anche quando ai lavoratori ingiustificatamente licenziati era stato legislativamente accordato il rimedio della reintegra. Giustappunto per il fatto che, pur mantenuti in azienda e non licenziati, non erano affatto esenti da una intrinseca situazione di soggezione a (nonché dal rischio di) ritorsioni datoriali più sottili e mimetiche, ma non meno moralmente avvilenti del licenziamento (quali mobbing ad iniziativa datoriale diretta o tramite i preposti, demansionamento, trasferimenti punitivi, blocco di carriera, ecc.).
Talché, a nostro avviso, anche in presenza – nel precedente assetto dell’art. 18 Stat. lav.- della reintegra giudiziale nel posto di lavoro, atta a vanificare gli effetti di un licenziamento ingiustificato, il metus sopravviveva in forma per così dire “anestetizzata”, latente ma vitale.
A poco o nulla, pertanto, valgono le obiezioni sostenute dai dissenzienti (prevalentemente legali, difensori degli interessi datoriali), così riassumibili: a) la prima, consistente nel doversi accordare prevalenza al principio della certezza del diritto (assicurato dalla prescrizione) sulla temporalmente illimitata rivendicazione dei crediti da parte dei lavoratori; b) la seconda, basata sull’infondata asserzione secondo cui l’emblema della stabilità reale (rappresentato dalla reintegra) non sarebbe stato del tutto vanificato ma solo limitato e che la sola marginalizzazione, pertanto, non sarebbe affatto idonea – in quanto parziale – a far nuovamente precipitare il lavoratore in quella situazione di metus o soggezione, riconosciuta ostativa alla rivendicazione dei propri crediti in corso di rapporto.
Prof. Mario Meucci – Giuslavorista