La Giustizia Italiana ai tempi del coronavirus
Avv. Francesca Lex.
Certo in tempi di assoluta emergenza, e inevitabile smarrimento, è difficile, se non impossibile, trovare una misura ad hoc per ogni settore della nostra vita sociale, politica e lavorativa.Le misure delle ultime ore adottate dal Governo nel settore Giustizia sono però significative di quanto tutto il nostro sistema giudiziario sia in perenne sofferenza, e di come tale costante precarietà non possa che raggiungere l’apice in un generale stato di confusione come quello attuale.
E non poteva essere altrimenti.
Dapprima, con il D.L. n. 11 dell’08 marzo 2020, probabilmente mosso dall’intento/necessità di non paralizzare una considerevole fetta delle attività giudiziarie (che almeno sulla carta contribuiscono al mantenimento di uno Stato di diritto), il Governo varava una serie di misure atte a contrastare gli effetti dell’emergenza epidemiologica con una regolamentazione più elastica, che nel sospendere la celebrazione delle udienze (fino al 22 marzo, ma era già al tempo una previsione oggettivamente irrealistica), lasciava ai capi degli uffici giudiziari una sorta di autogestione di spazi, tempi e modi relativi alla trattazione degli affari giudiziari.
Il rinvio delle udienze era accompagnato da una serie di eccezioni per casi, considerati maggioritari, che non subivano fondamentalmente restrizioni.
Già la prima querelle nasceva sull’interpretazione da darsi al comma 2 dell’art. 1, laddove proclamava la sospensione dei termini per qualsiasi atto “dei procedimenti indicati al comma 1”, cioè solo per quelli per i quali sostanzialmente fosse in corso un giudizio la cui udienza subiva la sospensione.
Gli esegeti più attenti già si erano dilungati su teorie più estensive, peraltro in linea con la ratio della norma, tesa prima di tutto a limitare la diffusione del contagio, e quindi lo spostamento fisico delle persone, cancellieri, giudici, avvocati e impiegati vari (anche degli uffici postali), tutti coinvolti nella macchina necessaria per dar corso a tutto ciò che materialmente non era stato sospeso.
Certo, già in quel momento, gli operatori più pragmatici (o più spaventati dalla paura di ammalare sé e gli altri) lamentavano una serie di incongruenze; i più preoccupati di tutto erano ovviamente gli avvocati, gli unici ad incorrere in responsabilità professionali per non avere eseguito quell’incombente che (sfortuna loro) non rientrava nel “fermo biologico”.
Il D.L. n. 18, varato il 17 marzo, ha di fatto troncato ogni indugio ermeneutico: ha abrogato gli art. 1 e 2 del D.L. n. 11 ed ha proclamato più drasticamente, al comma 2 dell’art. 83, che fino al 15 aprile “è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali”; anzi più incisivamente lo stesso comma dichiara che “si intendono sospesi…..in genere tutti i termini processuali”.
Anche in questo caso si ribadiscono, pedissequamente rispetto al primo decreto, le limitazioni a tale sospensione generale.
Proprio rispetto alle eccezioni si impone una prima riflessione: fra i casi in cui non opera la sospensione dei termini, chiamiamoli più ampiamente, “giudiziari” rientra il generico caso in cui “la ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti”.
La prima domanda che sorge è: di quale pregiudizio si deve trattare?
I criteri del discrimine non sono minimamente indicati.
E gli interrogativi si moltiplicano: se il pregiudizio del caso di specie attiene ad una delle materie già escluse dalla sospensione è inutile gestirlo come caso “particolare”; se invece non rientra fra i casi già di per sé “trattabili” anche in questo periodo transitorio, si apre oggettivamente una discussione.
Se infatti si volesse sollecitare l’intervento di un Giudice per recuperare un credito importante, che di fatto può rappresentare la sopravvivenza di un’azienda, ci si dovrebbe domandare innanzi tutto se un diritto di natura patrimoniale può prevaricarne uno più prioritario, che è quello della salute, personale e pubblica; come pensare infatti che un avvocato, un giudice, un cancelliere, un ufficiale giudiziario, un impiegato delle poste si mobilitino tutti, percorrendo strade per andare al lavoro in un momento di rigorosissime restrizioni sulla libera circolazione, per permettere ad un soggetto di recuperare sostanzialmente “solo vile danaro”?
E inoltre: come fare materialmente in tutte quelle realtà in cui l’interlocuzione con gli uffici giudiziari per via telematica non è completamente efficiente?
In un sistema giudiziario in cui per recuperare un credito, piccolo o grande che sia, occorrono anni, chiunque penserebbe che qualche mese in più di attesa non fa nessuna differenza; ma ciò non può certo consolare nè rappresentare ovviamente una risposta adeguata.
Ed il prolungamento (probabile) del periodo di sospensione creerà come al solito precedenti a cui ispirarsi per colmare le lacune del nostro legislatore.
Il buon senso di tutti gli operatori, in primis gli avvocati, forse restringerà molto il campo di applicazione pratica di questa previsione, ma di fatto anche questo vuoto, normativo e/o regolamentare, contribuisce a rafforzare la fallacia del nostro sistema giudiziario.
La lettura di questa eccezionale regolamentazione emanata in tempi di emergenza suggerisce poi progetti più ambiziosi.
Fra le misure contenitive rimesse ai capi degli uffici giudiziari, terminato il periodo “d’urto” (cioè dal 16 aprile, e fino, per ora, al 30 giugno), il comma 6 dell’art. 83 prevede fra le varie modalità anche quella di svolgere le udienze civili mediante collegamenti da remoto, addirittura anche in presenza della parti, come si legge alla lettera f), o comunque, come indicato nella lettera h), mediante lo scambio telematico di note scritte contenenti istanze e conclusioni, con successiva adozione fuori udienza del relativo provvedimento da parte del giudice.
Anche in questo caso è inevitabile quindi domandarsi se tali previsioni non potessero già prima far parte del nostro codice di procedura civile o se comunque non possano da oggi diventare oggetto di apposita codificazione nell’ambito di una più generale riforma che veramente snellisca il processo civile e lo adegui alla tempistica ed alla efficacia di altri sistemi giudiziari “più evoluti” del nostro.