La registrazione di un colloquio tra presenti vale come prova documentale
Con una recente sentenza (Cass. pen., sez. III, 08.03.2024, n. 10079), gli Ermellini hanno ancora una volta puntualizzato la differenza sostanziale tra registrazione di conversazioni da parte del soggetto partecipe e la nozione di intercettazione di comunicazioni.
Lunedi 15 Aprile 2024 |
La pronuncia in commento dichiara inammissibile il ricorso avente ad oggetto la sentenza della Corte di Appello di Brescia, che ha solo parzialmente riformato la condanna emessa dal Gip in primo grado, ritenendo utilizzabili, ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, le dichiarazioni telefoniche di ammissione del fatto-reato rese dall’imputato stesso alla madre delle vittime nel corso di una chiamata svoltasi in vivavoce alla presenza degli inquirenti.
Ebbene, il ricorrente ha lamentato l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, adducendo la violazione della disciplina codicistica in materia di intercettazioni.
La Cassazione ha ritenuto tale motivo manifestamente infondato, osservando come le captazioni occulte di cui agli artt. 266 e ss. c.p.p. abbiano ad oggetto comunicazioni tra due o più persone che agiscono con l’intento di escludere altre e siano svolte da un soggetto estraneo alla conversazione, mediante strumenti tecnici idonei a vanificare le cautele ordinarie a presidio della riservatezza.
Viceversa, la fonoregistrazione di un colloquio tra presenti operata clandestinamente da uno dei partecipi, o comunque di un soggetto ammesso ad assistervi, non può ricondursi alla nozione di intercettazione, integrando essa la “memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini della prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 cod. proc. pen., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa”.
In sostanza, la registrazione della conversazione che avviene tra autore e vittima da parte di quest’ultima è utilizzabile in dibattimento come prova documentale.
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Tale insegnamento si coniuga perfettamente ai principi generali posti a tutela della riservatezza delle comunicazioni, come valore che va bilanciato con l’esigenza di prevenire e reprimere la commissione di reati.
Sul punto, si è espressa la Cass. pen., S.U., 02.01.2020, n. 51, secondo la quale nell’esame dei principi costituzionali che informano la disciplina delle intercettazioni imprescindibile punto di partenza deve essere individuato nell’art. 15 Cost., che tutela due distinti interessi:
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da un lato, “quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni”; –
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dall’altro, “quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati”.
Il primo rientra nel catalogo dei diritti che la Carta costituzionale definisce espressamente come inviolabili, in quanto “parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana”.
Il secondo, ossia l’esigenza di prevenire e reprimere i reati, è espressione di un interesse collettivo, parimenti tutelato dalla Costituzione, il cui soddisfacimento giustifica, in astratto, una compressione del diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni. Il referente, in tal senso, viene individuato nell’art. 112 Cost., sull’obbligatorietà dell’azione penale.
Sul tema, doveroso appare il richiamo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: è ormai pacifico che l’art. 8 C.E.D.U., che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, possa cedere – fra l’altro – di fronte alla necessità di prevenire i reati.
A ben guardare, tali principi erano già operativi nel nostro ordinamento.
Invero, Cass., S.U., 08.02.2011, n. 3034, si era da tempo pronunciata sul necessario bilanciamento del diritto di difesa e del diritto alla riservatezza, sancendo la prevalenza della prerogativa del singolo di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Sostanzialmente la Suprema Corte ha stabilito che, in caso di contrasto tra privacy e diritto di difendersi in giudizio tutelato ex art. 24 Cost., debba prevalere il secondo in virtù della sua specialità, in ogni caso, in ossequio al “c.d. criterio di gerarchia mobile, dovendo il giudice procedere di volta in volta ed in considerazione dello specifico thema decidendum alla individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di una equilibrata comparazione tra diritti in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico” (Cass. civ., 05.08.2010, n. 18279).