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La richiesta aziendale di consegna dei dati giudiziari

1. Premessa

Com’è noto, nel momento in cui le aziende private o le amministrazioni pubbliche si determinano ad effettuare assunzioni di personale, richiedono, nel corso di colloqui pre-assuntivi con i candidati aspiranti al posto di lavoro – in forma verbale o, talora, mediante consegna di un formulario descrittivo della documentazione che gli stessi dovranno consegnare per una valutazione di idoneità alla futura assunzione – oltre ad attestati professionali o scolastici, anche documentazione afferente la loro situazione giudiziaria, cioè a dire il “Certificato generale del casellario giudiziale” e quello dei cd. “Carichi pendenti”.

Il primo certificato, menziona (quasi) tutti i provvedimenti giudiziari (penali, civili e amministrativi) definitivi di condanna (compresa la sospensione condizionale); il secondo, cd. dei “carichi pendenti”, menziona le imputazioni di reato in corso, delle quali non è stata ancora emessa sentenza confermativa di condanna o di assoluzione.

Componente o partizione del “Certificato generale del casellario giudiziale”, è costituita dal cd. “Certificato penale” che, invece, si limita ad elencare le sentenze definitive di condanna per i soli reati di natura penale.

2. Il necessario raccordo tra il Codice privacy (ex d. lgs. n. 196/2003) e il Regolamento europeo n. 679/2016 sulla protezione dei dati

Sia il “Certificato generale del casellario giudiziale” che quello dei cd. “carichi pendenti” – qualificati con la denominazione onnicomprensiva di “dati giudiziari” della persona- vengono rilasciati all’interessato dalla Procura della repubblica presso il Tribunale del luogo di residenza dell’interessato e, in quanto contengono dati “sensibili” del soggetto, godono di una pregnante protezione giuridica. Protezione assicurata, a suo tempo, dalla nostra legislazione sulla cd. Privacy (d.lgs. n. 196/2003) e, a partire dal 25 maggio 2018, dal Regolamento europeo n. 679/2016 in materia di protezione dei dati personali, conosciuto con l’acronimo GDPR (General data protection regulation), vigente nei paesi della UE dalla precitata data della sua entrata in vigore.

Da quella data, la parte generale del nostro Codice privacy ne è uscita caducata, ivi incluse talune attribuzioni/facoltà precedentemente assegnate al Garante privacy nazionale, quale l’“Autorizzazione generale al trattamento generale dei dati giudiziari” (i), a causa della necessaria opera di armonizzazione della pregressa disciplina nazionale con quella successiva di fonte europea, giustappunto costituita dal GDPR n. 679/2016.

Pertanto, allo stato, la disciplina dei dati giudiziari è reperibile nel testo del Nuovo Codice Privacy 2018 (d. lgs. n.196/2003 coordinato con il d. lgs. n.101/2018 di aggiornamento con il precitato Regolamento n. 679/2016), all’art. 2-octies, che, relativamente ai dati giudiziari, in linea generale e con riferimento a quelli pertinenti ai rapporti di lavoro, così prevede:

«Principi relativi al trattamento di dati relativi a condanne penali e reati:

1. Fatto salvo quanto previsto dal decreto legislativo 18 maggio 2018, n. 51, il trattamento di dati personali relativi a condanne penali e a reati o a connesse misure di sicurezza sulla base dell’articolo 6, paragrafo 1, del Regolamento, che non avviene sotto il controllo dell’autorità pubblica, è consentito, ai sensi dell’articolo 10 del medesimo regolamento, solo se autorizzato da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, che prevedano garanzie appropriate per i diritti e le libertà degli interessati.

2. In mancanza delle predette disposizioni di legge o di regolamento, i trattamenti dei dati di cui al comma 1 nonché le garanzie di cui al medesimo comma sono individuati con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Garante (ii).

3. Fermo quanto previsto dai commi 1 e 2, il trattamento di dati personali relativi a condanne penali e a reati o a connesse misure di sicurezza è consentito se autorizzato da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, riguardanti, in particolare:
a) l’adempimento di obblighi e l’esercizio di diritti da parte del titolare o dell’interessato
in materia di diritto del lavoro o comunque nell’ambito dei rapporti di lavoro, nei limiti stabiliti da leggi, regolamenti e contratti collettivi, secondo quanto previsto dagli articoli 9, paragrafo 2, lettera b), e 88 del regolamento(n. 679/2016, ndr)» (iii).

Al datore di lavoro privato (iv) è preclusa l’acquisizione diretta dei “dati giudiziari” (strutturati dalle due certificazioni innanzi riferite) sia dell’aspirante all’assunzione come del lavoratore dipendente, ragion per cui alla loro consegna alle aziende richiedenti deve provvedere l’interessato. Unica deroga, nel panorama giuridico, è quella rinvenibile nell’art. 25 bis del d.p.r.14 novembre 2002, n. 313 che ne rende obbligatoria la richiesta diretta (sanzionandone l’omissione) da parte di quei datori di lavoro che «intendano impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori, al fine di verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies e 609-undecies del codice penale(v), ovvero l’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori».

3. Sulla legittimità (o meno) delle richieste aziendali di condizionare l’assunzione o il mantenimento in servizio, alla produzione del “certificato generale del casellario giudiziale” e/o dei “carichi pendenti”

La questione merita di essere esaminata (e, auspicabilmente, risolta) tenendo presente preliminarmente:

a) il fatto che, come anticipato in nota 2, il Ministero della Giustizia (quindi il legislatore nazionale) – nella fattispecie di “mancanza delle disposizioni di legge o di regolamento” afferenti la gestione dei dati giudiziari, prevista dall’ art. all’art. 2-octies, comma 2, del Nuovo codice privacy 2018 – non ha disciplinato, a tutt’oggi, con apposito decreto (sono ormai decorsi 15 anni dalla previsione legislativa), il trattamento dei dati personali relativi a condanne penali (e ai reati ovvero a connesse misure di sicurezza),nonché le relative garanzie a favore degli interessati;

b) il fatto che, per sopravvenuta incompatibilità con le nuove disposizioni del GDPR n. 679/2016, è venuta meno in capo al Garante privacy la precedente facoltà di Autorizzazione generale (vi) alla gestione dei dati giudiziari da parte delle aziende richiedenti, come esplicitamente confermato, dal medesimo Garante, nel Provvedimento n. 146 del 5 giugno 2019 (vii).

Tanto premesso, va detto che, per non giungere all’incresciosa conclusione che risultasse preclusa alle aziende – in carenza di una disciplina legale o regolamentare legittimante l’acquisizione dei dati giudiziari ai fini dell’instaurazione o della gestione dei rapporti di lavoro – la facoltà, in fatto da sempre esercitata, di condizionare l’assunzione alla consegna da parte del candidato della documentazione attestante la sua situazione giudiziaria (tramite il Certificato generale del casellario giudiziale, ovvero solo penale, nonché dei carichi pendenti), ci si è fatti, giocoforza, carico del reperimento nell’ordinamento lavoristico di una disposizione legislativa legittimante, che ci consentisse, come italiani, di essere rispettosi della nuova normativa europea. Allo scopo precipuo, pertanto, di fornire, nel nostro Paese, concretezza alla fattispecie di cui al comma 3 dell’art. 2-octies del Nuovo Codice privacy 2018 (armonizzato con il GDPR 679/2016), che dispone che il trattamento dei dati giudiziari «è consentito se autorizzato da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, riguardanti, in particolare: a) l’adempimento di obblighi e l’esercizio di diritti da parte del titolare o dell’interessato in materia di diritto del lavoro o comunque nell’ambito dei rapporti di lavoro, nei limiti stabiliti da leggi, regolamenti e contratti collettivi, secondo quanto previsto dagli articoli 9, paragrafo 2, lettera b), e 88 del regolamento».

In quest’ottica sembra essersi convenuto da parte di tutti gli operatori (giudiziari, in primis)- in via di fatto e per comportamento concludente – che una tale (ed idonea) disposizione legislativa sia rinvenibile, nell’ordinamento del nostro Paese, in una norma legislativa predisposta nel 1970 per vietare al datore di lavoro talune indebite intrusioni nella sfera privata dei lavoratori, la quale – per converso – legittima e autorizza quelle “rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale” del candidato all’assunzione e del lavoratore.

Trattasi dell’art. 8 della l. n. 300/’70 (cd. Statuto dei lavoratori) che così dispone: «Art. 8.
Divieto di indagini sulle opinioni. “È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”».

Non può essere messo in dubbio, ad esempio, che un’azienda di trasporto pubblico che intenda procedere all’assunzione di autisti di autobus, possa prescindere dal conoscere – preliminarmente all’assunzione – tramite il “certificato generale del casellario giudiziale” o del solo “certificato penale” integrato da quello dei “carichi pendenti”, se il futuro dipendente sia incorso in reati (es. per spaccio e/o uso abituale di stupefacenti, pregiudizievoli di per se ed anche per il suo stato di vigilanza alla guida), di natura tale da rivelarne l’inidoneità professionale alla posizione offerta, e gli esempi potrebbero continuare.

Va osservato poi, nella concreta realtà, che la richiesta datoriale dei dati giudiziali ai candidati all’assunzione, quantunque possa risultare ad essi sgradita, viene quasi sempre accolta e soddisfatta, stante la consapevolezza che al rifiuto consegue la mancata assunzione da parte aziendale, in base alla piena ed insindacabile discrezionalità datoriale di non darvi corso, accompagnata, altresì, dalla liceità di non dover motivare o comunicare le causali del suo rifiuto (a differenza della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa del lavoratore in servizio, ex lege n. 604/’66).

Giustappunto, per essere più chiari, quanto sopra si attualizza, eminentemente, sia perché alla posizione dell’aspirante all’assunzione non si accompagna alcun diritto ad instaurare un rapporto di lavoro, sia perché la richiesta aziendale di condizionarla alla cognizione dei dati sensibili di natura giudiziaria, si rivela del tutto legittima ex art. 8 Statuto dei lavoratori, ai fini del riscontro datoriale – tramite la visione dei dati giudiziari attestati dal “certificato generale giudiziale” e dei “carichi pendenti” – dell’attitudine (o meno) a rivestire la posizione offerta in pre-assunzione.

Diversa risulta, invece, la fattispecie relativa alla richiesta dei dati giudiziari (Certificato generale del casellario giudiziale e/o solo penale e/odei soli carichi pendenti) nei confronti del lavoratore già in servizio, resasi necessaria sia per il rinnovo dei medesimi già forniti in preassunzione sia per l’appresa conoscenza datoriale – dall’esterno (voci circolanti, stampa o mezzi audiovisivi) – che quel dipendente è incorso in qualche reato (o imputazione di reato) suscettibile di indurre il datore di lavoro nel dubbio che, dall’oggettiva ed asettica valutazione della natura dell’imputazione o del reato commesso, ne esca definitivamente infranto il rapporto di fiducia ed irrimediabilmente pregiudicato l’affidamento aziendale sul corretto disimpegno futuro delle pregresse mansioni o del ruolo in precedenza rivestito dal lavoratore in questione. In tale fattispecie si assiste, di norma, ad una resistenza o ad un immotivato rifiuto del dipendente, con naturale sbocco in contenzioso giudiziario, affidato alla risoluzione del magistrato. Altra fattispecie occasionante contenzioso, è costituita dalle “autocertificazioni” mendaci dei carichi pendenti – autocertificazioni legislativamente autorizzate dal 2012 e valide alla pari dei certificati del Casellario – scoperte tali successivamente, in corso di rapporto, per effetto della richiesta aziendale di rinnovo dei cd. “carichi pendenti”, con consegna stavolta del certificato redatto dall’Ufficio del Casellario.

In quest’ultima fattispecie, a prescindere dalla tipologia di imputazione emersa (e taciuta nell’autocertificazione), legittimamente il datore di lavoro ha potuto (e può) procedere alla risoluzione del rapporto per il venir meno, innanzitutto, del rapporto fiduciario a causa del riprovevole comportamento menzognero. Nel caso, invece, che dal “certificato dei carichi pendenti” richiesto al lavoratore già assunto, emerga un’imputazione di reato che il datore ritenga inconciliabile con il mantenimento dello stesso nelle mansioni o nel ruolo disimpegnato o, addirittura, con la prosecuzione del rapporto, l’azienda potrà valutare lo spostamento a mansioni diverse/deteriori ovvero procedere alla risoluzione del rapporto (previo allontanamento, per dispensa “retribuita” dalla prestazione, nelle more) nel momento in cui l’imputazione sia confermata da sentenza definitiva di condanna.

L’eventuale contenzioso che ne scaturirà sarà risolto dal magistrato mediante una sua circostanziata valutazione sull’idoneità dello specifico reato accertato a costituire motivo di declassamento del lavoratore ovvero giusta causa/giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento.

Ad ogni buon conto si evidenzia come la giurisprudenza di legittimità si sia occupata, in prevalenza, di ricorsi dei legali dei lavoratori volti a contestare – non già la presunta esorbitanza del provvedimento datoriale di rescissione del rapporto a seguito dell’appresa cognizione dei reati emergenti dal “certificato dei carichi pendenti” e confermati da sentenza definitiva di condanna – quanto l’asserita illegittimità, a monte, della richiesta del certificato in questione, desunta da una presunta (quanto inesistente) violazione dell’art. 8 Statuto dei lavoratori, congiunta a quella dell’inosservanza della presunzione di innocenza dell’imputato, ex art. 27 Cost.

4. La posizione della giurisprudenza di Cassazione al riguardo

Nella giurisprudenza di Cassazione si registrano non più di 5-6 sentenza che hanno dibattuto la questione della legittimità (o meno) della richiesta datoriale dei “certificati del casellario giudiziale” e dei “carichi pendenti” al candidato all’assunzione, nonché della richiesta aziendale di rinnovo, in corso di rapporto, di quest’ultimo certificato, da parte del lavoratore dipendente, sospettato di essere incorso nell’imputazione di reati, commessi dopo la sua assunzione.

In sequenza temporale decrescente, si registrano: Cass.14 agosto 2020 n. 17167, Cass. 10 ottobre 2018, n. 25085, Cass. 12 settembre 2018 n. 22173, Cass. 17 luglio 2018 n. 19012.

La sentenza resa dalla più recente Cass.14 agosto 2020 n. 17167 (Pres. Raimondi – Rel. Lorito), è scaturita dal ricorso di un candidato all’assunzione in Poste italiane spa, ritenutosi indebitamente privato del diritto al perfezionamento, in rapporto stabile, delle sue aspettative di aspirante all’impiego, a causa del riscontro aziendale nel “certificato dei carichi pendenti” della menzione di due procedimenti penali per reati contro il patrimonio e la persona (concorso in furto e minaccia).

All’argomentazione della difesa del lavoratore, per cui sarebbe risultata indebita la richiesta aziendale di produzione del precitato certificato in quanto non previsto nel ccnl regolante il rapporto di lavoro dei dipendenti postali – tanto da rivolgere all’azienda la censura di scorrettezza e malafede – la Cassazione ha replicato, affermando che:

a) «la società ha esercitato il potere discrezionale – riconosciuto (con il “Format Dichiarazione”) dallo stesso interessato e costituzionalmente, dall’art. 41 Cost., posto a garanzia della libertà d’iniziativa economica d’impresa – di non procedere all’assunzione di personale allorquando l’assunzione stessa si configuri come incompatibile con le esigenze di affidabilità e piena funzionalità dell’impresa privata, come avviene nel caso in cui l’attività dispiegata postuli una intensità della fiducia rapportata all’oggetto delle mansioni ed al grado di affidamento che queste richiedono, grado indubbiamente elevato ove, come nella specie, le mansioni assegnate comportino l’affidamento di un bene quale la corrispondenza, che gode di ampia protezione anche di rango costituzionale (art. 15 Cost.)»;

b) conseguentemente, in armonia con precedenti affermazioni, ha asserito doversi confermare «la legittimità della previsione di una verifica prodromica alla assunzione da parte aziendale, dovendo escludersi che l’eventuale e futura assunzione dell’appellante possa avvenire prescindendo da qualsiasi valutazione sull’idoneità a svolgere le specifiche mansioni dedotte in contratto (in questi sensi, vedi Cass. 3/12/2018 n. 31154 con riferimento ad ipotesi di verifica successiva della idoneità professionale del lavoratore, alla stregua di una prova non contemplata nella declaratoria del contratto collettivo nazionale di settore);

c) quanto all’addebito della difesa del ricorrente, secondo cui la condotta assunta dalla società avrebbe vulnerato il principio di presunzione di non colpevolezza dell’imputato, consacrato dall’art. 27 Cost., la sentenza chiarisce la non pertinenza del richiamo per la fattispecie in decisione, giacché «il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di cui all’art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, ai rapporti fra privati (ex multis, vedi Cass. 21/9/2016 n. 18513)».

Anche Cass. 10 ottobre 2018 n. 25085 (Pres. Nobile – Rel. Curcio), è stata occasionata dal ricorso di una candidata all’assunzione in Poste italiane spa, e se ne fa menzione perché i legali della ricorrente hanno, fra l’altro, altresì invocato specificamente la presunta violazione dell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori.

Il ricorso è stato rigettato con le seguenti, corrette, motivazioni, così espresse: «non può dirsi violato l’art. 8 dello statuto dei lavoratori, atteso che non può ritenersi in contrasto con la privacy del lavoratore, ai fini dell’assunzione, la valutazione dei c.d. “carichi pendenti”, ove relativa a fattispecie di reato collegata alla verifica della sua attitudine professionale. La corte di merito infatti ha precisato che la circostanza che le mansioni di assunzione comportassero anche l’uso dell’automezzo legittimava la società a valutare la rilevanza della tipologia di reato oggetto dell’imputazione penale – omicidio colposo stradale – connesso con un aspetto non secondario delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere la lavoratrice». Relativamente, poi, al sottolineato richiamo del principio di non colpevolezza, opposto alla determinazione aziendale di non dar corso all’assunzione della ricorrente, la Suprema corte ha nuovamente precisato che: «la presunzione di innocenza sancita dall’art. 27 Cost., comma 2, non ha la stessa valenza precettiva nell’ambito del rapporto di lavoro e della sua disciplina privatistica, perché concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può pertanto applicarsi estensivamente per regolamentare fattispecie che rientrano nella previsione di norme civilistiche».

Egualmente dispone l’anteriore Cass. 12 settembre 2018 n. 22173 (Pres. Bronzini – Rel. De Gregorio), che non si discosta dai principi enunciati dalle due decisioni innanzi riferite, anzi – in quanto temporalmente antecedente – si può asserire che essa abbia tracciato il solco argomentativo nel quale si sono inserire le successive.

Questa decisione, non dissimilmente dalle altre, sorge dalla presentazione di un ricorso da parte di una candidata all’assunzione in Poste italiane spa, alla quale «si richiedeva, secondo il modello (cd. Format, ndr) sottoscritto dall’interessata, espressamente la totale incensuratezza, coerentemente con le previsioni di cui all’art. 19 c.c.n.l., secondo cui ai fini dell’assunzione occorreva pure un certificato penale di data anteriore a tre mesi, che per la genericità del termine adoperato (certificato) era riferibile anche a quello di carichi pendenti». La difesa della lavoratrice – risultata non assunta in quanto dal richiesto e prodotto “certificato dei carichi pendenti” la stessa risultava imputata del reato di cui all’art. 349 c.p. (“Violazione dei sigilli”) – eccepiva che il medesimo certificato doveva considerarsi “tamquam non esset”, in quanto l’art. 19 del ccnl dei dipendenti postali non lo contemplava espressamente, tramite la locuzione “certificato penale”, da intendersi preclusiva del “certificato dei carichi pendenti”, in quanto non menzionato da parte della formulazione contrattuale afferente ai documenti da presentare per la futura assunzione.

In buona sostanza, si attribuiva al riferito art. 19 del Ccnl regolante il rapporto dei dipendenti di Poste italiane – che disponeva la produzione del “certificato penale” incensurato – valore ed idoneità a costituire un’eteronoma limitazione alla discrezionale facoltà di Poste italiane di richiedere documentazione addizionale, tra cui il contestato “certificato dei carichi pendenti”. A nostro avviso, del tutto correttamente, ma trascurandosi – da parte dei legali della candidata – il fatto sostanziale della sottoscrizione del Format aziendale, nel quale si precisava da parte di Poste italiane che l’assunzione era condizionata alla “totale incensuratezza” dei candidati, formula che, inequivocabilmente, legittimava la pretesa aziendale della cognizione estesa anche ai cd. “carichi pendenti”.

La difesa della lavoratrice eccepiva altresì la violazione dell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori e l’inosservanza della garanzia di non colpevolezza, ex art. 27 Cost.

Al riguardo la Cassazione replicava sinteticamente, affermando che: «si appalesano assolutamente inconferenti le lamentate violazioni di legge in ordine alla L. n. 300 del 1970, art. 8 (divieto di indagini sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore), ed  art. 27 Cost. (circa la responsabilità penale, la presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva e la funzione della pena)».

La Cassazione de qua rigettava, quindi, il ricorso facendo proprie le motivazioni espresse, per un caso del tutto analogo, dalla precedente Cass. 16 maggio 2017 n.12086 secondo cui: «la pendenza di un procedimento penale per il reato (…) risultante dal relativo certificato, e l’assenza di un obbligo in capo alla società di perfezionare in ogni caso il contratto avevano, quindi, determinato legittimamente la sospensione dell’attività riguardante l’assunzione in parola in attuazione del potere discrezionale – riconosciuto, contrattualmente, con il “Format Dichiarazione” dallo stesso interessato e, costituzionalmente, dall’art. 41 Cost. – di escludere il diritto all’assunzione di soggetti, allorquando l’assunzione stessa si configuri come incompatibile con le esigenze di affidabilità e, nello stesso tempo, di piena, pronta e perdurante funzionalità dell’impresa privata, segnatamente nel caso che l’attività spiegata coinvolga interessi di ampie categorie di cittadini».

In questo contesto di uniformi motivazioni si registra un’unica decisione dissenziente – costituita da Cass.17 luglio 2018 n. 19012 (Pres. Nobile – Rel. Marotta) – peraltro motivatamente, giacché, in questa fattispecie, non ricorreva la sottoscrizione da parte della candidata di alcun “Format” aziendale contemplante il requisito della “totale incensuratezza” (probabilmente per omessa consegna da parte degli addetti alla selezione dei candidati).

Anche questa decisione è stata occasionata da un ricorso, contro Poste italiane spa, di una candidata già inserita nella graduatoria unica nazionale dei lavoratori precedentemente assunti con contratto a tempo determinato dalla stessa azienda del servizio postale, convocata successivamente per la scelta della sede. La candidata non era stata, poi, assunta in servizio per essere risultato, dalla certificazione della competente Procura, un carico pendente. Il ricorso avverso la mancata assunzione aveva incontrato adesione dai giudici del merito, sia a livello di tribunale che di corte d’appello, sostenendosi da entrambi i giudicanti, che l’art. 19 del ccnl di settore, relativo ai documenti per l’assunzione – tramite la dizione “certificato penale“ da presentare – era da interpretarsi inequivocabilmente riferito a quello del “casellario giudiziale”, quindi configurava una limitazione per l’azienda all’acquisizione integrale dei dati giudiziari dei candidati all’assunzione (cognizione integrale che sarebbe conseguita dalla previsione “integrata” con il certificato dei carichi pendenti, invece non menzionato espressamente). Quest’ultimo non era, pertanto, pretendibile, in fattispecie, giacché – statuisce la sentenza -«all’espressione ‘certificato penale’ – ex art. 19 ccnl, ndr (che evoca il certificato di cui agli artt. 23 e 25 del T.U. sul casellario giudiziale di cui al d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313) non è possibile attribuire un significato semantico suscettibile di plurime interpretazioni». Addizionalmente la sentenza specifica che non può costituire precedente, Cass. n. 12086 del 16 maggio 2017, depositata da parte di Poste italiane, in quanto «nel caso esaminato in tale decisione l’obbligo di produrre anche il certificato di carichi pendenti si è fatto derivare (non dalla clausola contrattuale ma) da un “format di dichiarazione individuale posizione lavorativa di interesse recapito full time”, sottoscritto dal lavoratore con il quale quest’ultimo si era impegnato a produrre anche tale certificazione. Dell’esistenza di un “format” quale quello sopra indicato non vi è traccia nel presente giudizio nel quale si discute solo della legittimità della richiesta aziendale di estendere i documenti previsti dall’art. 19 del c.c.n.I. fino a ricomprendere tra questi anche il certificato dei carichi pendenti».

Prosegue la sentenza, affermando che la richiesta del “certificato penale” costituisce, di per se, un limite al divieto di indagini intrusive sul lavoratore, ammesso, tuttavia, dall’art. 8 Statuto dei lavoratori in quanto «si giustifica con la rilevanza, ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, della conoscenza di date informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato. Tale limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso (oggetto del certificato previsto dall’art. 27 del T.U. sopra citato), ciò specie in considerazione del principio costituzionale della presunzione d’innocenza».

Salvo il richiamo inconferente, in ambito contrattuale civilistico, al principio di presunzione di innocenza ex art. 27 Cost., che – come chiarito dalle posteriori sentenze – «concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, ai rapporti fra privati (ex multis, vedi Cass. 21/9/2016 n. 18513)», non si può dire affatto che le motivazioni rese dalla sentenza in esame siano peregrine, giacché l’esegesi dell’art. 19 ccnl dipendenti postali è da considerare corretta, in quanto la locuzione “certificato penale” (non affiancata da altra integrazione o specificazione), individua giuridicamente la sola componente penale del “Certificato generale del casellario giudiziale”.

Ad ogni buon conto sono piuttosto rari i Ccnl che, nello specificare la documentazione di cui è onerato il candidato all’assunzione, la individuano in maniera tecnico-giuridica corretta; in prevalenza, indicano la presentazione del “certificato penale”, inteso come locuzione di uso comune onnicomprensiva, occasionando alle aziende il concreto rischio di vedersi, in sede giudiziaria, invalidata la pretesa conoscenza, altresì, dei “carichi pendenti”, come nel caso deciso dalla sopra riferita Cass.17 luglio 2018, n. 19012.

Va osservato, peraltro e a nostro avviso, che in quello specifico caso (ed in altri analoghi, potenzialmente verificabili) in cui il/la candidato/a si “converte”, per sentenza, in lavoratore dipendente – a seguito dell’invalidazione giudiziale del rifiuto datoriale all’assunzione, in quanto la pretesa cognizione dei dati giudiziari dell’aspirante all’impiego, risulta fondata su certificazione, per limitazione ex Ccnl, non pretendibile dallo stesso datore (ove, peraltro, risultano iscritte specifiche imputazioni di reato) – è presumibile ipotizzare che la durata dell’instaurato rapporto sia di “corto respiro”. Infatti il datore, all’interno del rapporto contrattuale di lavoro – ove la limitazione scaturente dal ccnl per la sola fase preassuntiva del candidato non ha motivo di sussistere, per il dipendente già assunto – fruisce del pieno diritto di effettuare quelle valutazioni, ex art. 8 Stat. lav., sul “convertito” lavoratore dipendente al fine di verificare, con ragionevolezza e buon senso, scevro da animosità e intenti ritorsivi, se quelle imputazioni a carico del “neo” dipendente siano di natura tale da farlo ritenere professionalmente e/o moralmente inidoneo all’impiego in azienda. E al maturare di una convinzione, sebbene solo personale, che fossero tali da consentirgli, legittimamente, la rescissione del rapporto, disporne il licenziamento in occasione della sentenza definitiva di condanna. Si pensi, ad esempio, al caso in cui le imputazioni, poi confermate da sentenza definitiva, evidenziassero reati in violazione della morale comune rinvenibili nel cd. “minimo etico” ovvero comportamenti particolarmente deprecabili ed odiosi, trasgressivi delle norme di civile convivenza (per la legittimazione del licenziamento, in caso di accertamento definitivo, e senza che lo stesso sia subordinato alla previsione nel codice disciplinare del ccnl o aziendale (viii), ex art. 7 Stat. lav., sussiste una nutrita giurisprudenza, cui si rinvia, per tutte, a Cass. n. 428 del 9/10/2019 (ix).

Questa probabilistica ipotesi attualizzerebbe una dilazione temporale della determinazione aziendale di non avvalersi della prestazione della persona presentatasi in selezione per l’assunzione, della quale sono stati appresi, indebitamente, i “carichi pendenti”, stante la limitazione ex Ccnl al solo “certificato penale”; dilazione o rinvio, tuttavia, non di poco conto, atteso che la ripulsa in preassunzione, è insindacabile mentre la ripulsa/licenziamento della stessa persona, per gli stessi precedenti penali, in costanza di rapporto, è pienamente sindacabile giudizialmente per una verifica di rispondenza ed adeguatezza, del provvedimento estintivo del rapporto, all’asserita carenza – addotta dal datore – di idoneità/attitudine professionale e morale del dipendente.

5. Conclusioni

A conclusione può dirsi che, qualora l’azienda applichi al personale un Ccnl in cui la formulazione contrattuale per l’acquisizione conoscitiva dei dati giudiziari dei candidati sia espressa con la locuzione di uso comune, “certificato penale” – giuridicamente individuante solo la partizione o componente “penale” del “Certificato generale del casellario giudiziale” (come sostenuto, correttamente, dalla citata Cass.17 luglio 2018 n. 19012) – non sussistono perplessità per considerare del tutto corretto l’impedimento al datore di lavoro della cognizione, addizionale al certificato penale, del certificato dei “carichi pendenti”.

Nei confronti dei lavoratori dipendenti, invece – e lo si ripete, nonostante già detto in precedenza – la cognizione integrale dei loro dati giudiziari (costituita dalle iscrizioni del “Certificato generale del casellario giudiziale” e del “certificato dei carichi pendenti”), da parte del datore di lavoro, non è soggetta ad alcuna limitazione, né in termini quantitativi (anche più volte) né temporali (quando ritenuto opportuno).

Pertanto, sia l’uno che l’altro, sono pretendibili e rinnovabili a richiesta, facendo presente da parte nostra che, normalmente, l’esigenza del rinnovo attiene eminentemente al certificato dei “carichi pendenti” ed insorge nel momento in cui alle direzioni aziendali giungono notizie dall’esterno (da fonti considerate attendibili, quali la stampa, la Tv, o altrimenti) che quel tal dipendente sarebbe incorso in qualche imputazione di reato. In presenza di un intuitivo sospetto, la richiesta al lavoratore di un aggiornamento del “certificato dei carichi pendenti” – in luogo di soddisfare una mera curiosità datoriale – si impone come doverosa (x), in quanto funzionale alla valutazione della permanenza in azienda di quel determinato lavoratore, in diretta dipendenza dalla tipologia del reato imputatogli, e della sua idoneità del medesimo a infrangere l’intercorrente rapporto di fiducia nonché l’affidamento sulla persistenza (o meno) della sua idoneità ad assolvere, anche per il futuro, le mansioni ed il ruolo rivestito in azienda. La cognizione circostanziata dell’imputazione di reato, consentirà, di conseguenza, all’azienda di adottare le misure ritenute più opportune, quali lo spostamento ad altre mansioni ovvero la risoluzione del rapporto per palese insostenibilità di mantenimento del suddetto dipendente nell’organico aziendale, nel momento in cui l’imputazione viene confermata da condanna definitiva.

Prof. Mario Meucci- Giuslavorista

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Note
i) Ne è conferma il Provvedimento del 5 giugno 2019 del Garante stesso, laddove afferma: « …l’autorizzazione generale al trattamento dei dati giudiziari da parte di privati, di enti pubblici economici e di soggetti pubblici n. 7/2016, alla luce della disciplina applicabile ai medesimi dati contenuta nel regolamento e nel codice (art. 10 del regolamento; art. 2-octies del codice e art. 21 del decreto legislativo n. 101/2018), ha cessato di produrre effetti giuridici alla data del 19 settembre u.s., ai sensi del comma 3 della citata disposizione».

ii) Si anticipa, sin d’ora, che da parte del Ministero della Giustizia – a distanza di 15 anni dall’impegno/obbligo a disciplinare il contenuto del comma 2 di detto articolo – nessun decreto attuativo è stato emesso, talché, non è improprio affermare che si versa in una situazione di “vuoto normativo” che rende problematici sia i comportamenti delle aziende sia quello interpretativo degli operatori giuridici.

iii) Ove l’art. 88 del Regolamento n. 679/2016 relativo al ”Trattamento dei dati nell’ambito dei rapporti di lavoro”, prevede quanto segue: «1. Gli Stati membri possono prevedere, con legge o tramite contratti collettivi, norme più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro, in particolare per finalità di assunzione, esecuzione del contratto di lavoro, compreso l’adempimento degli obblighi stabiliti dalla legge o da contratti collettivi, di gestione, pianificazione e organizzazione del lavoro, parità e diversità sul posto di lavoro, salute e sicurezza sul lavoro, protezione della proprietà del datore di lavoro o del cliente e ai fini dell’esercizio e del godimento, individuale o collettivo, dei diritti e dei vantaggi connessi al lavoro, nonché per finalità di cessazione del rapporto di lavoro. 2. Tali norme includono misure appropriate e specifiche a salvaguardia della dignità umana, degli interessi legittimi e dei diritti fondamentali degli interessati, in particolare per quanto riguarda la trasparenza del trattamento, il trasferimento di dati personali nell’ambito di un gruppo imprenditoriale o di un gruppo di imprese che svolge un’attività economica comune e i sistemi di monitoraggio sul posto di lavoro».

iv) Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi, invece, possono consultare direttamente il Sistema Informativo del Casellario (SIC) per:

  1. le acquisizioni d’ufficio di informazioni concernenti stati, qualità e fatti, (art. 43 e 46D.P.R.445/2000),

  2. i controlli delle dichiarazioni sostitutive di certificati (art. 71 D.P.R. 445/2000),

  3. l’acquisizione dei certificati del casellario giudiziale e dell’anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato (art. 28 e 32 D.P.R. 313/2002).

v) Le norme penali di cui sopra individuano, rispettivamente i reati di “riduzione o mantenimento in schiavitù”, “prostituzione minorile”, “pornografia minorile”, “detenzione di materiale pornografico realizzato con utilizzo di minori”, ”sfruttamento della prostituzione”.

vi) La soppressione di tale facoltà, esercitata in base all’art. 27 del caducato Codice privacy, determina la preclusione, per il futuro e a partire dal 19 settembre 2018, della facoltà del Garante di emettere autorizzazioni (o dinieghi) alle richieste rivoltegli dalle aziende per ottenere l’autorizzazione alla gestione dei dati giudiziari del personale dipendente; attribuzione che, prima dell’entrata in vigore del Regolamento europeo per la protezione dei dai (cd. GDPR n. 679/2016), il Garante aveva legittimamente esercitato. Ne sono testimonianza i provvedimenti nn. 314 e 315 del 22 maggio 2018, (l’uno riguardante un’azienda applicante il ccnl dell’industria metalmeccanica, l’altro quello della logistica), tramite cui il Garante aveva negato loro l’autorizzazione. Motivando, per l’azienda applicante il ccnl metalmeccanico che il predetto ccnl non poteva essere considerato «”idonea base giuridica” per il trattamento dei dati, in quanto la citata disciplina, espressione dell’autonomia collettiva, appare generica laddove si limita a prevedere la possibilità di acquisire dati giudiziari indipendentemente dal tipo di mansioni svolte dal dipendente …» .Per l’azienda della logistica, il dinego veniva motivato per non avere indicato alcun documento giuridico suscettibile di rivestire la qualità di “idonea base giuridica” per il trattamento dei dati giudiziari di natura penale.

vii) In tale provvedimento titolato “Provvedimento recante le prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati, ai sensi dell’art. 21, comma 1 del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 (in G.U. Serie Generale n. 176 del 29 luglio 2019”), si dà atto che «l’autorizzazione generale al trattamento dei dati giudiziari da parte di privati, di enti pubblici economici e di soggetti pubblici n. 7/2016, alla luce della disciplina applicabile ai medesimi dati contenuta nel Regolamento e nel Codice (art. 10 Regolamento; 2-octies del Codice e art. 21 del d.lgs. n. 101/2018), ha cessato di produrre effetti giuridici alla data del 19 settembre 2018, ai sensi del comma 3 della citata disposizione»;

viii) Così espressamente Cass. n. 14997/2010, secondo cui: «ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione».

ix) La sentenza in questione così afferma: «E’ ravvisabile una giusta causa di licenziamento ogniqualvolta venga irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto, perché il datore di lavoro deve poter confidare sulla leale collaborazione del prestatore e sul corretto adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono a carico di quest’ultimo. La fiducia, che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività (cfr. fra le più recenti Cass. n. 24023/2016 e Cass. n. 17166/2016)».

x) Risulta essere pretesa, in via preventiva, dall’art. 41 ccnl 9/1/2019 del settore creditizio, tramite cui si dispone quanto segue: «Lavoratore sottoposto a procedimento penale. Il lavoratore che venga a conoscenza, per atto dell’Autorità Giudiziaria (Pubblico ministero od altro Magistrato competente), che nei suoi confronti sono svolte indagini preliminari ovvero è stata esercitata l’azione penale per reato che comporti l’applicazione di pena detentiva anche in alternativa a pena pecuniaria, deve darne immediata notizia all’Azienda. Analogo obbligo incombe sul lavoratore che abbia soltanto ricevuto informazione di garanzia».

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