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Separazione dei coniugi: la relazione investigativa quale prova atipica

Nella sentenza n. 4038/2024 la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla utilizzabilità ai fini probatori della relazione dell’investigatore nell’ambito di un giudizio di separazione con richiesta di addebito a carico di uno dei coniugi, inquadrandola tra le prove atipiche.

Il caso:  il Tribunale di Trani, all’esito del procedimento di separazione personale tra Tizio e Mevia, a) accoglieva la domanda di addebito della separazione proposta da Tizio nei confornti di Mevia;

b) rigettava la domanda di addebito della separazione proposta dalla Ve.Da. nei confronti del coniuge;

c) poneva l’obbligo di mantenimento a carico del padre a favore delle due figlie minori, determinato in Euro 600,00 per cadauna, e la compartecipazione di entrambi i genitori al pagamento delle spese straordinarie, nella misura del 50%;

d) condannava Mevia al pagamento di un quarto delle spese di lite, compensando tra le parti i restanti tre quarti.

Mevia proponeva appello avanti alla Corte distrettuale, che accoglieva parzialmente l’appello in punto di manteniemtno delle figlie minori, mentre rigettava le altre censure: in particolare, la Corte distrettuale  affermava che era da ritenersi dimostrato, in base alle emergenze istruttorie, che la crisi coniugale con carattere di irreversibilità era intervenuta a causa dell’infedeltà della moglie, di cui il marito aveva avuto conoscenza a mezzo di lettera anonima e successiva conferma tramite relazioni investigative.

Mevia ricorre in Cassazione, deducendo che;

– il Giudice di secondo grado aveva errato nel ritenere provata l’asserita violazione dell’obbligo di fedeltà da parte dell’odierna ricorrente attribuendo, del tutto illegittimamente, rilevanza probatoria alle relazioni investigative prodotte dal marito.

– le relazioni investigative costituiscono prove a tutti gli effetti solo a condizione che l’investigatore venga escusso nel contradditorio fra le parti, ed invece, nel caso di specie, l’investigatore non era mai stato assunto quale teste nel corso del giudizio, sicché alcuna valenza probatoria poteva ascriversi alle suindicate relazioni.

La Cassazione, nel dichiarare inammissibile la doglianza della ricorrente, osserva che:

a) La censura in esame investe non un fatto inteso in senso storico e avente valenza decisiva, ma elementi probatori suscettibili di valutazione, come appunto la relazione investigativa, rientrante tra le prove atipiche liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., di cui il giudice è legittimato ad avvalersi, atteso che nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova;

b)  la relazione scritta redatta da un investigatore privato è stata utilizzata correttamente dai giudici di merito come prova atipica, avente valore indiziario, ossia è stata valutata unitamente ad altri elementi di prova ritualmente acquisiti;

c) sotto ulteriore profilo, come rilevato anche dalla Procura Generale, che le relazioni investigative erano formate anche da materiale fotografico, la cui utilizzabilità a fini decisori è espressamente riconosciuta dall’art. 2712 cod. civ., anche in presenza di un disconoscimento della parte contro la quale il materiale fotografico viene prodotto;

d) in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni fotografiche, il disconoscimento delle fotografie non produce gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’art. 215, secondo comma, cod. proc. civ., perché mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.

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