Truffa finanziaria e responsabilita’ della Sim
Il caso
Gli attori evocavano in giudizio la Società di investimenti, chiedendo di accertare e dichiarare la responsabilità solidale della SIM per tutti i danni, patrimoniali e non, subiti in conseguenza dell’illiceità della condotta posta in essere da un suo promotore finanziario nella gestione del loro patrimonio mobiliare.
Il promotore, infatti, si appropriava di considerevoli somme, facendosi consegnare a più riprese assegni che, seppur intestati dal cliente alla SIM, venivano poi in realtà incassati dal consulente finanziario, posto che quest’ultimo, fornendo per la compilazione degli assegni, all’insaputa del cliente, una penna con inchiostro cancellino, provvedeva a cancellare l’intestazione dei vari assegni, intestandoli in suo favore.
Siffatta circostanza appresa molto dopo dai risparmiatori in quanto resa pubblica sui giornali a seguito di autodenuncia dello stesso promotore ed avvio di un procedimento penale da parte della Procura della Repubblica di Palermo, veniva provata giudizialmente con la produzione attorea di copia fronte-retro degli assegni prima e dopo la negoziazione (acquisiti, questi ultimi, a seguito di richiesta di accesso agli atti alla banca trattaria) dai quali emergeva, inconfutabilmente, che il promotore (ovviamente nullatenente) provvedeva a cancellare il nome della SIM in ciascun assegno al fine di intestare gli stessi (quasi tutti) a suo nome (ovvero a suoi prestanome).
La SIM, con un ingiustificabile ritardo di molti mesi, informava il risparmiatore dell’interruzione del rapporto di lavoro con il promotore e si rifiutava di risarcire i danni, ritenendo insussistente una qualsivoglia responsabilità nell’occorso, nonostante i risparmiatori truffati, madre ottuagenaria e figlio del tutto privi di conoscenze in campo finanziario ed ignari della truffa che stavano subendo da parte del promotore, avessero con fiducia affidato alle sue competenze i risparmi di una vita e non avessero alcun motivo di dubitare della bontà e professionalità della condotta del promotore (ed invero nella truffa venivano coinvolti un numero rilevante di risparmiatori di Palermo, indice questo dell’abilità del promotore nel porre in essere artifici e raggiri nei loro confronti).
LA DECISIONE
Il Tribunale di Palermo (Giudice Unico Dott. Andrea Illuminati), in accoglimento della domanda attorea, condannava la SIM sulla scorta del disposto dell’art. 31, comma 3, T.U.F., in forza del quale: “il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”.
Il Tribunale di Palermo, aderendo alla giurisprudenza del Supremo Collegio formatasi sul punto, ha affermato che tale responsabilità sussiste a prescindere dalla tipologia di rapporto di preposizione tra intermediario e promotore, potendo applicarsi sia ai casi di lavoro subordinato, sia ai contratti a distanza, o mandato o altri. La disposizione costituisce, infatti, fattispecie applicativa della regola sancita in termini generali dall’art. 2049 c.c. che imputa a padroni e committenti i danni arrecati dai loro domestici o commessi, nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti.
Più precisamente, il Tribunale ha delibato che trattasi di responsabilità per fatto altrui di tipo oggettivo, indipendente dalla colpa o dal dolo del committente e che trattasi di fattispecie complessa che richiede il compimento dell’illecito produttivo del danno da parte del commesso e la sussistenza di un rapporto di causalità tra l’esercizio delle incombenze e il danno cagionato.
In particolare, con riguardo a tale ultimo aspetto, la giurisprudenza ha specificato che è sufficiente un mero rapporto di “occasionalità necessaria”, tale per cui l’incombenza da sbrigare o il compito da eseguire abbia determinato una situazione che ha agevolato o reso possibile il fatto illecito e l’evento dannoso.
Il nesso è giudicato sussistente pure in caso di violazione di disposizioni impartite al preposto e in caso di comportamento doloso del promotore, ancorché tale comportamento costituisca reato, di tal ché, per come chiarito dalla Suprema Corte in una fattispecie similare alla presente, è necessario (e sufficiente) che le attività svolte dal preposto abbiano determinato una situazione tale da rendere possibile o comunque aver agevolato il comportamento produttivo di danno.
Il Tribunale ha escluso la sussistenza di un concorso colposo delle vittime, pure eccepito dalla SIM in via gradata, affermando, con argomentazione a fortiori, che la giurisprudenza di legittimità ha anche più volte affermato che financo le modalità anomale di consegna del denaro al promotore non possono essere di per sé addotte dall’intermediario come concausa del danno subito dall’investitore, al fine di ridurre l’ammontare del risarcimento dovuto.
Conformemente a questo orientamento, la prevalente giurisprudenza di legittimità è stata in genere particolarmente rigorosa nei confronti degli intermediari autorizzati (proprio per la funzione di tutela del risparmio che svolge questa ipotesi di responsabilità oggettiva), dando spazio al rilievo del concorso di colpa del danneggiato solo in alcune ipotesi estreme, in cui emergeva addirittura la collusione tra il danneggiato e il preponente infedele, o la consapevole e fattiva acquiescenza del cliente alla violazione delle regole (Cass. n. 27925 del 2013).
L’affermazione della inidoneità della irregolarità delle modalità di consegna del denaro ad escludere, di per sé, la responsabilità dell’intermediario autorizzato si fonda, per la giurisprudenza di legittimità, anche sulla considerazione che le disposizioni di legge e regolamentari dettate in ordine alle modalità di corresponsione al promotore finanziario dell’equivalente pecuniario dei titoli acquistati o prenotati sono dirette unicamente a porre a suo carico un obbligo di comportamento al fine di tutelare l’interesse del risparmiatore e non possono, quindi, logicamente interpretarsi come fonte di un onere di diligenza a carico di quest’ultimo, tale da comportare un addebito di colpa (concorrente, se non addirittura esclusiva) in capo al soggetto danneggiato dall’altrui atto illecito. Peraltro, il Tribunale ha perspicuamente osservato che gli assegni erano stati consegnati al promotore finanziario presso l’ufficio in cui questi svolgeva le sue funzioni di promotore, con spendita del nome della SIM da parte del medesimo e che anche le modalità dei versamenti (conformi a quanto previsto dall’art. 94, co. 6, Reg. CONSOB n. 11522/98, che vieta i pagamenti in contanti prescrivendo la loro effettuazione mediante assegno) valessero a rendere non imprudente il comportamento tenuto dagli attori nella circostanza.
Ciò detto, si approfondiscono qui di seguito le questioni di diritto inerenti l’an ed il quantum della domanda risarcitoria proposta dagli attori.
1^ questione: an debeatur
Gli elementi costitutivi della responsabilità solidale della S.I.M. per i danni arrecati dal promotore finanziario sono:
A) la condotta illecita del consulente finanziario;
B) il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta illecita del promotore finanziario e l’esercizio delle incombenze a lui facenti capo;
C) l’esistenza di un danno cagionato al cliente/investitore.
Trattasi di responsabilità oggettiva ex art. 2049 c.c., cioè di responsabilità indiretta per il danno provocato dal proprio incaricato, in quanto agevolato o reso possibile dalle incombenze demandategli, su cui la preponente aveva la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza (cfr. Cass. Sez. U. 16 maggio 2019, n. 13246; tra le altre Cass. 26 giugno 2019, n. 17060).
E’ infatti ius receptum che “in tema di responsabilità indiretta della società di intermediazione mobiliare (S.I.M.) per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari nello svolgimento delle incombenze loro affidate, l’accertamento di un rapporto di necessaria occasionalità tra fatto illecito del preposto ed esercizio delle mansioni affidategli comporta l’insorgenza di una responsabilità (anche) diretta a carico della società, la cui configurabilità non è preclusa dall’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998 (già art. 5, comma 4, della legge n. 1 del 1991), il quale si limita a prevedere un’estensione della responsabilità al fatto altrui, non impedendo tuttavia anche l’accertamento della potenziale responsabilità per fatto proprio” (Cfr. ex multis Cassazione civile n. 26172/2007; Cassazione civile, sez. III , 31/07/2017 n. 18928).
Peraltro sotto il profilo probatorio si rammenta che troverà applicazione l’art. 23 del T.U.F. che, al comma 6, così prescrive: “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.
E’ sufficiente che il comportamento posto in essere dal promotore per la realizzazione dell’illecito rientri nel quadro delle attività funzionali all’esercizio delle incombenze di cui è stato investito dall’intermediario, anche se il collaboratore abbia operato oltre i limiti delle proprie incombenze, per finalità estranee a quelle del preponente o abusando dei suoi poteri (cfr. Cass. 17 gennaio 2020, n. 857).
2^ questione: quantum debeatur
Il danno in questione può e deve essere liquidato ex artt. 2056 e 1226 c.c., poiché, per l’appunto, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, lo stesso deve essere liquidato dal Giudice con valutazione equitativa e solo sulla base di ipotesi controfattuali.
Illustre dottrina ha tra l’altro affermato che la valutazione equitativa sulla scorta delle superiori norme presenta anche il pregio di una maggiore elasticità (ex pluris Bigliazzi Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, 1993, p. 728 ss.).
Cass. civ. Sez. Unite 16.07.2008, n. 19499, ha divisato sul punto i seguenti principi di diritto:
-
il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subito, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile;
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l’art. 1226 c.c. va costantemente interpretato nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma anche quando quella prova si presenti, per l’una o per l’altra parte, particolarmente complessa o costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.
Cassazione civile, sez. III, 16/04/2009 n.9027, ha precisato che l’accoglimento della domanda deve mirare a reintegrare per intero il pregiudizio subito dai clienti e deve conseguentemente essere esteso al rendimento che questi avrebbero ricavato, ove l’acquisto dei titoli fosse andato a buon fine, secondo la regola causale che regola il processo civile, cioè quella del più probabile che non; con tale sentenza è stato ritenuto illegittimo un criterio risarcitorio che limiti il ristoro del danno riconoscendo i soli interessi legali.
Il Tribunale ha liquidato innanzitutto il danno patrimoniale emergente, quindi la perdita subita pari al capitale affidato al promotore finanziario di cui quest’ultimo si è appropriato, vaporizzandolo anziché investendolo.
Il Tribunale ha poi liquidato il danno non patrimoniale evidenziando, sulla scorta dell’insegnamento della Suprema Corte, di cui alle sentenze nr. 26972, 26973 e 26974 del 2008, che: il danno non patrimoniale si identifica con il pregiudizio provocato dalla lesione degli interessi della persona non connotatati da rilevanza economica; il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano come codificati dall’art. 2043 c.c.; a termini dell’art. 2059 c.c., esso “deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”; tra le disposizioni cui la norma rimanda risalta, in primo luogo, il secondo comma dell’art. 185 c.p. a tenore del quale “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale e non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbano rispondere per il fatto altrui”; a questa si aggiungono, nonostante l’assenza di un rimando letterale espresso, le disposizioni della carta costituzionale poste a presidio dei diritti fondamentali della persona.
Nel concreto, la riconducibilità della condotta dell’intermediario alla fattispecie delittuosa della truffa (art. 640 c.p.) fonda l’obbligo dei soggetti che, a termini di legge, rispondono solidalmente dell’illecito, al risarcimento della sofferenza morale indotta dalla condotta illecita da valutarsi in via equitativa alla luce delle modalità del fatto ed al livello di sensibilità della vittima.
In assenza di criteri certi di liquidazione è possibile liquidare tale danno sulla scorta degli elementi del caso concreto: entità delle somme sottratte, natura fiduciaria del rapporto, frustrazione delle aspettative di rendimento connaturate alla tipologia del rapporto stesso, sofferenza nell’apprendere di aver perso tutti i risparmi di una vita, da valorizzarsi soprattutto in relazione ad una persona anziana, ma anche per il tradimento della fiducia riposta nell’intermediario.
Il Tribunale ha invece rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante connesso ai rendimenti che gli stessi attori avrebbero conseguito ove avessero effettuato gli investimenti indicati nei certificati finanziari fatti loro sottoscrivere dal promotore finanziario, e ciò sulla base delle indicazioni della CTU contabile, secondo cui l’assenza dell’ISIN CODE non avrebbe consentito di identificare in maniera univoca il prodotto finanziario oggetto dell’investimento, informazione questa ritenuta indispensabile per accedere alla quotazione storica effettiva.
Ma la mancata indicazione degli ISIN CODE nei moduli dei falsi investimenti sottoscritti da parte attrice, che non consentono l’esatta e puntuale determinazione del danno da lucro cessante, da un lato non era circostanza certamente imputabile ai risparmiatori, dall’altro non avrebbe potuto, come invece avvenuto, riverberarsi in danno degli stessi, con un rigetto della domanda afferente tale voce di danno perché “non provata”.
Ed invero, proprio per l’assenza degli ISIN CODE, per il principio della vicinanza della prova e perché oggetto di causa era una truffa finanziaria, non si sarebbe dovuto pretendere che gli attori dovessero allegare elementi, informazioni e quant’altro per calcolare altrimenti le performances teoriche degli investimenti.
In verità, in sede di CTU, alla luce delle difficoltà prospettate dal consulente, parte attrice aveva fornito spunti interpretativi, con l’allegazione di alcuni indici, tassi e performance delle borse estratti da siti di autorevoli società di investimenti, che costituivano mera espressione dell’attività di ricerca tecnica che lo stesso CTU, per rispondere al quesito, avrebbe potuto eseguire.
Ancora la difesa attorea aveva precisato che sempre le Sezioni Unite (v. Sez.Un. n.30175/2011 in motivazione) avevano ribadito che, pur non essendo la consulenza tecnica d’ufficio qualificabile come mezzo di prova in senso proprio e non potendo essere utilizzata per sgravare le parti dai loro oneri probatori, era consentito affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (cosiddetta consulenza deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (cosiddetta consulenza percipiente), quando si tratta di fatti il cui accertamento richiede specifiche cognizioni tecniche (si veda tra le altre, altresì Cassazione civile, Sez. I, 24/05/2016, n. 10720 e 25/05/2016, n. 10825 Cassazione civile, sez. II, 21/01/2014, n. 1181 Cass. 13 marzo 2009, n. 6155). Ancora troncante era, secondo la prospettazione attorea, il seguente principio di diritto espresso dalle Sezioni unite del Supremo Collegio dell’1/02/2022 n.3086 e del 28/02/2022 n.6500: ” In materia di esame contabile ai sensi dell’art. 198 cod. proc. civ. il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni“.
Il Tribunale invece sul punto ha ritenuto tardiva l’allegazione attorea in sede di CTU (che non costituiva vera e propria produzione documentale, ma una mera osservazione di parte ad adiuvandum l’espletamento del mandato conferito al CTU), gravando i risparmiatori di un onere probatorio eccessivamente oneroso ed alleviando nel contempo parte convenuta dai propri oneri probatori (essendo l’assenza di ISIN CODE nei moduli di investimenti, peraltro, imputabile proprio alla stessa convenuta ed alla truffa ordita al promotore).
Avvocato Rita Grisafi